Agnese Codognola per la Repubblica
C' erano una volta il test del sangue occulto nelle feci, la colonscopia e la sua versione ridotta, la sigmoidoscopia. Se fatti nei tempi e nei modi previsti, all' incirca attorno ai ' 50 anni, salvavano molte vite perché coglievano in tempo le lesioni tumorali e pretumorali che si possono facilmente asportare ma che, se lasciate crescere, si trasformano in tumori che possono diventare mortali.
Poi sono arrivati esami all' apparenza più sofisticati, come una specifica forma di Tac, la pillola endoscopica o, ancora, analisi genetiche complesse di alcuni marcatori presenti nelle feci, nel sangue o nel respiro: e si è pensato che fosse giunto il momento della pensione per i primi test, troppo semplici. E invece ora l' International Agency for Research on Cancer dell' Oms di Lione, lo Iarc, rimette le pedine al loro posto: sangue occulto, colonscopia e sigmoidoscopia sono gli unici esami che, a oggi, si sono mostrati in grado di incidere realmente sulla mortalità da tumore del colon, e che hanno un bilancio positivo tra rischi, benefici e costi.
Per gli altri la strada è tutta da percorrere, perché spesso comportano qualche pericolo (per esempio di radiazioni o di troppi falsi positivi), sono costosi e perché comunque devono ancora dimostrare di essere superiori ai primi, quanto a capacità di individuare le lesioni. Il documento, appena pubblicato sul New England Journal of Medicine, ha anche un altro vantaggio: quello di ricordare a tutti l' importanza dell' adesione agli screening di popolazione, cui ormai sono chiamati i cittadini di moltissimi paesi anche perché questi sono i soli, insieme a quelli per il cancro al seno, di cui sia dimostrata davvero l' efficacia. Sottolinea Roberto Labianca, direttore dell' Unità operativa di Oncologia medica dell' ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, grande esperto di questo tumore: «Non ci sono dubbi sul fatto che lo screening influenzi la mortalità da cancro al colon.
Eppure c' è molto lavoro da fare in Italia, perché le persone che aderiscono e vanno a farsi il test sono attorno al 90% al nord, ma calano via via che si va verso Sud, fino a raggiungere il 40% nelle regioni più meridionali e nelle isole: un valore francamente inaccettabile. I programmi di screening, sono regionali: la scarsa adesione dipende dall' organizzazione generale della sanità regionale e dalla capacità di informare la popolazione e di proporre test che siano semplici e accettabili».
Il primo esame proposto è sempre quello del sangue occulto nelle feci, semplicissimo e assolutamente non invasivo. Il tentativo di superarlo con esami più sofisticati deriva dal fatto che il sangue può essere presente nelle feci per diversi motivi, e non solo per un tumore o una lesione pretumorale. Tuttavia esso ha mantenuto la sua validità, proprio perché è del tutto innocuo ( gli unici effetti negativi sono lo stress in caso si riceva un invito ad approfondire a causa della positività dell' esito), costa pochissimo e permette una prima scrematura, ottima se si devono analizzare centinaia di migliaia di persone. In particolare, il documento dello Iarc ha confermato che un esame ogni due anni riduce la mortalità di un valore che, a seconda delle condizioni, va dal 10 al 40%; non ci sono prove sufficienti a dimostrare che riduca anche l' incidenza, ma ciò che conta, ai fini dell' esito, è la precocità della scoperta del tumore.
Se il sangue nelle feci dà l' allarme, si procede al secondo passaggio: quando c' è si consigliano infatti esami più approfonditi come la colonscopia o pancolonscopia, che permette di osservare la maggior parte del colon, o la sigmoidoscopia, che arriva solo alla parte finale, che tuttavia è quella dove più spesso si formano i tumori. Anche in questo caso, lo Iarc ha esaminato tutti gli studi disponibili prima di esprimersi, e poi confermato che usando queste tecniche si riduce tanto la mortalità ma anche l' incidenza (poiché possono cogliere lesioni pretumorali ed eliminarle prima che diventino cancro) fino al 50 - 70%.
Insomma tutti i dati concorrono a concludere senza ombra di dubbio che questi test sono efficaci. Ma non sono esenti da complicazioni: oltre allo stress causato dall' ansia, talvolta si verificano perforazioni dell' intestino durante la procedura endoscopica ( il tasso va dallo 0,01 allo 0,05% degli esami), mentre la percentuale di falsi positivi non è mai stata determinata con certezza. « Pur con alcuni limiti - conclude Labianca - questi restano quindi gli esami che possono fare la differenza, e che continuano e a essere superiori a tutti gli altri proposti negli ultimi anni».
Tra questi, uno dei più amati è la Tac del colon, che sembra meno invasivo (e in effetti lo è) ma che, come tutte le Tac, è associato all' assorbimento di una quantità non trascurabile di radiazioni. E tuttavia per essa, così come per l' affascinante pillola endoscopica o per i supermoderni marcatori genetici, secondo gli esperti di Lione non ci sono studi controllati affidabili né studi di confronto diretto con sangue occulto e colonscopia e quindi, in definitiva, non c' è alcuna prova che gli svantaggi ( costi compresi) superino eventuali benefici e che essi siano migliori rispetto agli esami classici.
Fonte: qui
VIVERE COL CANCRO: A OLTRE 3 MILIONI DI ITALIANISERVONO CURE AD HOC
UNA MOSTRA FOTOGRAFICA DAL 19 MAGGIO A MILANO RACCONTA LA STORIA DI DONNE CHE HANNO COMBATTUTO CONTRO IL TUMORE AL SENO: IL DOLORE DELLA SCOPERTA, LA FATICA DELLE CURE, IL TRAGUARDO DI UNA RINASCITA
"SE IL MIO CORPO HA GENERATO UNA PALLINA, ALLO STESSO MODO PERCHE' NON PUO' ELIMINARLA?"
In Italia nel 2016 erano più 3,1 milioni le persone in vita dopo una diagnosi di tumore, due milioni delle quali con una diagnosi vecchia di almeno cinque anni; e il loro numero è in crescita. Fino a pochi anni fa, la sopravvivenza si valutava a cinque anni, e i malati rientravano tutti in due classi fondamentali: coloro che stavano lottando, e coloro che avevano già superato la fase delle cure acute come la chemio o la radioterapia.
Poi le sopravvivenze si sono allungate, e si è iniziato a capire che non era più possibile trattare allo stesso modo persone che, per esempio, dovevano ancora sottoporsi ad anni di terapia preventiva rispetto alle possibili recidive, e chi si era lasciato alle spalle la malattia magari da un decennio. Gli esperti hanno quindi iniziato a ragionare su come trattare in modo molto più preciso tutti i pazienti.
Antonella Surbone, oncologa e bioeticista della New York School of Medicine, e Paolo Tralongo, direttore della divisione di Oncologia dell' ospedale Umberto I di Siracusa, hanno pubblicato diversi studi su come farlo ( l' ultimo dei quali sul Journal of Clinical Oncology), e organizzato congressi specifici (il prossimo è in calendario a Siracusa il 29 e 30 giugno). Spiega ancora Paolo Tralongo: « Alle fasi tradizionali della malattia ( diagnosi, fase acuta, terminalità) si è aggiunta la lungovivenza e, per alcuni tumori, anche la possibilità concreta di poter ottenere una guarigione.
Ciò che caratterizza tutti pazienti è però l' eterogeneità del loro stato, delle loro prospettive e necessità. Bisogna accompagnarli con più idonee proposte di assistenza, nelle quali hanno molta importanza anche gli aspetti educazionali e quelli preventivi, quelli riabilitativi fisici e quelli psicosociali».
La proposta di Tralongo e Surbone è dunque quella di suddividere i pazienti in quattro gruppi fondamentali: gli acuti, cioè coloro che richiedono ancora un trattamento in ospedale; i cronici, che hanno un tumore a crescita lenta, i lungoviventi, in remissione da tempo e, infine, i guariti, cioè coloro le cui probabilità di sopravvivenza si sono uniformate a quelle delle persone simili per età e condizioni di salute diverse dal cancro.
« Questa suddivisione - chiarisce Tralongo - consente di personalizzare il percorso dell' assistenza con interventi scelti in relazione alla condizione clinica, all' epidemiologia del singolo tumore e al rischio derivante dalla sua caratterizzazione biologica. Non solo: attraverso di essa è possibile affrontare con rapidità anche le necessità psicosociali, e promuovere l' adesione a corretti stili di vita e agli screening».
Infine, Tralongo sottolinea l' importanza della categoria che fino a poco tempo fa era sorprendente ma che oggi, per fortuna, lo è sempre di meno: quella dei guariti: « Anche se le definizioni hanno sfumature diverse, è indubbio che oggi ci sono persone che non hanno mai avuto ricadute e la cui salute, dopo un tumore, negli anni diventa uguale a quella di chi non l' ha avuto.
Quando possibile, è quindi molto importante utilizzare il termine guarito: non solo per un beneficio psicologico, dei malati e dei familiari, ma anche perché il suo impiego può determinare benefici anche sulla vita sociale e lavorativa ».
Sì ci sono i guariti perché oggi dal cancro si guarisce, anche.
ANNALISA E LE ALTRE
Da ansa.it
"Ho provato che cosa significhi 'sentirsi crollare il mondo addosso'. Ogni tre mesi i controlli mi portano a fare i conti con la realtà, ma sono pronta ad affrontarli con la consapevolezza che potrò sempre rialzarmi e guardare a oriente, per vedere il sole dietro le nuvole" - Annalisa 56 anni.
"'Ehi mamma, cos'è questa pallina?' Mi chiede mio figlio una mattina qualunque. Una settimana dopo ero finita nel girone dantesco dei controlli. A scacciare la paura è stato un semplice pensiero: se il mio corpo ha generato una pallina, allo stesso modo perché non può eliminarla? Oggi sono una donna in cammino, il domani lo attendo un giorno alla volta, senza fretta e aspettative" - Silvia 47 anni.
"Questa esperienza è stata così significativa che ho deciso di festeggiare a un anno dalla diagnosi con un viaggio con le amiche a Barcellona. A un anno dall'operazione ho tatuato un colibrì simbolo di gioia di vivere, capacità di vedere i pericoli ma anche resilienza" - Nadia 28 anni.
"La diagnosi di cancro è lo spartiacque tra una vita tranquilla e una governata da forza e determinazione: un nuovo punto di partenza. La malattia mi ha portato ad avvicinarmi ad altre donne che stavano affrontando il mio stesso percorso, e con loro ho trovato tanta forza, positività e voglia di stare insieme"- Tullia 53 anni.
Annalisa, Silvia, Nadia, Tullia. Tutte hanno combattuto contro il tumore al seno ed hanno deciso di raccontare la loro storia attraverso gli scatti delicati della fotografa Silvia Amodio. Il 19 maggio, nella Sala Panoramica del Castello Sforzesco di Milano, si inaugura infatti la mostra fotografica 'Io ero, sono, sarò', un progetto nato da un'idea di Coop Lombardia e realizzato da Amodio.
La mostra è composta da 50 fotografie di grande formato, 49 donne (e un uomo) con solo un velo sul corpo, che descrivono in maniera "elegante, originale e onesta la ferita e le storie di chi si è misurato con il dolore della scoperta e la fatica delle cure", ma anche di chi ha colto l'opportunità di rimettersi in gioco, ripensare a come prendersi cura di sé e trovare il coraggio di realizzare un sogno. Gli scatti raccontano la lotta e la speranza, ma soprattutto il traguardo di una rinascita. Chi ha deciso di partecipare al progetto lo ha fatto per celebrare la vita. Il velo, leggero, trasparente e avvolgente, è il fil rouge di tutti gli scatti. Il suo utilizzo ha consentito di "giocare" sul set e di (s)velare non solo le parti del corpo colpite dal male ma anche le cicatrici profonde e non sempre visibili.
Le storie di queste donne raccontano di chi scopre per caso la malattia tre giorni prima del matrimonio o di chi si accorge che c'è qualcosa che non va perché il figlio lattante smette improvvisamente di "attaccarsi a uno dei due seni", di chi nota una strana reazione del proprio gatto oppure semplicemente si sottopone a un controllo di routine. Tra loro anche il racconto di un uomo che a 41 anni scopre un nodulo al seno e inizia la sua sfida verso la guarigione.
Fonte: qui
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