Siamo quelli che vanno in pensione prima, con un assegno alto. Saremo quelli che andranno in pensione più tardi e con assegni che rischiano di essere da fame. I numeri dell’Ocse sono impietosi nel dircelo. Sempre che chi di dovere abbia voglia di sentirseli dire
Quante bugie che ci raccontiamo sulle pensioni. Non lo diciamo noi, ma l’Ocse, che ha diffuso giusto ieri il suo “Pensions at glance 2017”, rapporto comparativo su tutti i sistemi previdenziali del pianeta, in cui spicca, tra le altre, una scheda appositamente destinata al nostro Paese. Uno dei tre Paesi più anziani del mondo, ricordiamolo sempre, insieme a Germania e Giappone. Soprattutto, il Paese col sistema pensionistico più caro d’Europa, e quindi del mondo. Non solo per il suo 15% del Pil abbondante dedicato a coprire i costi della previdenza, contro una media europea attorno al 10%. Ma anche perché è quello più costoso (secondo solo all’Ungheria) per l’impresa e per il lavoratore, quando ancora non si è ritirato, che deve versare ogni mese un obolo pari a un terzo del suo stipendio.
Più costoso, dicevamo, ma anche uno di quelli più generosi. In media un lavoratore di un Paese Ocse, quando va in pensione, si prende il 53% dello stipendio. In Italia questa percentuale cresce all’83%, perché così hanno voluto partiti e sindacati, accettando che l’assegno si calcolasse sulla base dell’ultima busta paga percepita, nell’unico Paese al mondo in cui gli stipendi si calcolano in base all’anzianità di servizio.
Peraltro, non è nemmeno troppo vero che oggi come oggi si vada in pensione tardi. Al contrario, l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro è di circa 63 anni, inferiore a quella di Spagna, Olanda, Danimarca, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone (dove si smette di lavorare a settant’anni!), e più in generale alla media dei Paesi Ocse. Una specie di Bengodi, insomma.
Alt! Una specie di Bengodi per chi in pensione ci è già. Per chi arriva dopo, il Paradiso rischia di trasformarsi in un girone dell’inferno. Perché l’età della pensione si è alzata e si alzerà di anno in anno, sino a superare presto i settant’anni e a lambire i 72 per i nati nel 1996. Perché il metodo di calcolo è cambiato da retributivo a contributivo, calcolato sulla base dei contributi versati nel corso di una vita, non in funzione dell’ultima retribuzione. Perché i rapporti di lavoro si sono fatti sempre più frammentati e incostanti. Perché l’età d’ingresso nel mercato del lavoro sta aumentando sempre di più. Perché, come racconta l'ultimo rapporto Ismu, presto o tardi dovremo farci carico di una consistente fascia anziani stranieri con una pensione poverissima. Tutto questo con un debito pubblico tra i più alti mondo appoggiato alle nostre tempie, che ci ricorda ogni minuto (non ai politici in campagna elettorale, ma dopo sì, anche a loro) che indietro non si può tornare e che un sistema pensionistico come quello di prima possiamo solo sognarcelo la notte.
“La sfida attuale per l’Italia è limitare la spesa pensionistica nel breve e nel medio periodo e rispondere a un tema di adeguatezza per i pensionati di domani”, conclude l’Ocse Non ci rimane che agire altrove, insomma. Cercando quanto più possibile di ridurre la disoccupazione e i buchi contributivi di chi oggi sta lavorando (o dovrebbe lavorare). Ridisegnando la carriera lavorativa così da permettere a chi dovrà lavorare sino a settant’anni di farlo in modo utile – ad esempio formando i lavoratori più giovani - senza diventare un costo o un rischio per l’impresa. Come farlo è la domanda numero uno dei prossimi vent’anni. Prima o poi ci toccherà rispondere.
Fonte: qui
P.S. ovviamente l'articolo evita accuratamente di parlare dello scandalo delle pensioni d'oro, vera cosa inaccettabile ed ingiustificabile del sistema pensionistico italiano ...
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