La Federal Reserve ha cominciato a rialzare i tassi
Mancano i dollari! E’ la globalizzazione ragazzi – di Maurizio Blondet
Dopo tutti i trilioni di trilioni che la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha “stampato” in anni di allentamento, ci credereste che nel mondo, di colpo, mancano dollari?
Anzi, sono “evaporati”, secondo l’espressione del governatore della banca centrale dell’India, Urijt Patel. Il motivo è essenzialmente che la Federal Reserve ha cominciato a rialzare i tassi prima bassissimi, per restringere gradualmente la sua espansione monetaria, mentre allo stesso tempo il Tesoro Usa, alle prese col debito più grande della storia, ha messo sui mercati una maggior offerta dei suoi buoni del Tesoro.
Risultato: tutti i capitali roventi in dollari che irrigavano la speculazione nel mondo, si sono precipitati in Usa, risucchiati (attratti) dai rendimenti più alti e dalla maggiore offerta di titoli di debito a più alto rendimento.
Anemizzando di colpo i mercati emergenti, come si dissangua un ferito a morte.
Le banche centrali dei paesi emergenti cercano di tamponare la ferita alzando disperatamente i tassi per attrarre un po’ di capitali; banche centrali minori (come la Nigeria o Bangladesh) stanno comprando dollari per scongiurare la mancanza di liquidità delle loro banche, con ciò naturalmente aggravando il problema: aumentala domanda di dollari.
La cosa è talmente preoccupante che il governatore Patel ha scritto un editoriale sul Financial Times lunedì, in cui letteralmente implora la Federal Reserve di rallentare la stretta monetaria, e il Tesoro Usa di coordinarsi con la Federal Reserve: “Data la rapida crescita della misura del debito Usa, la Fed deve rispondere rallentando i suoi piani di restrizione.
Se non lo fa, i Buoni del Tesoro Usa assorbiranno una tale porzione della liquidità in dollari, da rendere inevitabile una crisi dei titoli di debito nel resto dei mercati del dollaro”.
Anche il governatore della banca centrale dell’Indonesia (261 milioni di abitanti), Perry Warijo, s’è unito alla urgente supplica del collega indiano: “Il dollaro è ancora re ”.
La valuta argentina e quella brasiliana sono crollate; il collasso della lira turca è stato per adesso tamponato dalla banca centrale di Ankara alzando i rendimenti dal 16,5 al 17,75%: un rialzo mai visto.
Ma anche l’Europa subisce un forte deflusso di capitali verso gli Stati Uniti: dal 2012, regolarmente, il 3 per cento del Prodotto Interno Lordo della zona euro sta andando a finanziare – udite udite – il deficit di Usa e Regno Unito.
Perché i rendimenti attesi sono più alti in Usa che in Europa. E i massimi esportatori di capitale – detto altrimenti, i colpevoli di fuga dei capitali – sono i tedeschi.
I ricchi impiegano l’enorme surplus di capitali lucrato con l’export per finanziare il deficit americano: interessante contrappasso per una Germania moralista che impone agli europei del Sud, le cicale, di non superare il deficit del 3%, “fare le riforme” (tagliare salari), serrare ancor più l’austerità.
E’ la deflazione di Merkel. Ma è proprio qui il motivo della fuga: la politica di deflazione e restrizione dei consumi che impone dogmaticamente l’ordoliberismo di Berlino, anzitutto ai propri lavoratori (“moderazione salariale” per esportare) e in paesi come Italia, Spagna Grecia la “recessione permanente” da blocco della spesa pubblica, hanno ridotto a poco o nulla le occasioni di investimento redditizio, in Europa, degli enormi capitali accumulati dai tedeschi con l’export.
Sicché il sangue che Berlino non consente venga ad irrigare i popoli europei, viene mandato ad irrigare i consumi americani.
Adesso naturalmente le teste (non) pensanti della BCE a trazione tedesca annunciano, ordinano, esigono, una riduzione dell’allentamento monetario anche dell’euro; già da giugno, la vogliono; effettivamente, occorre alzare i tassi per renderli più appetibili di quelli americani; ovviamente il risultato sarà di dissanguare l’Italia che pagherà più interessi sul suo enorme debito, e anche Grecia e Spagna e non ultima, la Francia.
Spingerci tutti verso la bancarotta.
Tempi interessanti per Mario Draghi, Weidmann e i ministri delle Finanze dell’euro, chiamati a gestire le fasi terminali, implosive, della globalizzazione. E per noi che saremo travolti.
Ma possiamo almeno amaramente ridere: è la globalizzazione, ragazzi. L’assenza di confini per merci-uomini-capitali, deliberatamente voluta.
L’immensa bolla di moneta-debito, pseudo-capitale creato dalle banche indebitando tutti (si può oggi apprezzare meglio la politica monetaria di Putin, che ha accumulato oro su oro).
Gli ideologi del liberismo globale hanno privatizzato la creazione monetaria, abolito ogni separazione tra banche speculative e banche commerciali; costruito un mercato unico senza paratie che circoscriva il contagio speculativo e le crisi, un Titanic che hanno voluto privo di compartimenti stagni, di dazi, di controllo sulle fughe di capitali, di ordine monetario, perché li vedevano come penalizzanti per i lucri.
Il risultato è che una decisione della Federal Reserve mette nei guai l’India e l’Indonesia, fa affondare la Turchia, diffonde il caos nei mercati emergenti e dissangua l’Europa.
E’ la globalizzazione, ragazzi.
Successe qualcosa di simile negli anni ’20 e ’30. Gli Stati Uniti, durante la grande guerra (1914-18) erano i fornitori di tutti i materiali per gli alleati impegnati nel conflitto, Londra, Parigi, Roma, e quindi ne erano diventati i grandi creditori.
Fort Knox traboccava dunque di tonnellate di lingotti affluiti dai paesi debitori. Come normale conseguenza del Gold Standard, si sarebbe prodotta una montagna di dollari-carta, con conseguente inflazione in Usa.
La Federal Reserve e i grandi banchieri americani impedirono questo esito, esportando quei capitali di troppo. Il capitale americano, poco remunerato in patria, cercò nel mondo retribuzioni più alte.
Le trovò in Germania, il grande paese industriale sconfitto. Nel 1925, quando il tasso di sconto della Fed era del 3 %, in Germania era del 10%. Il denaro a prestito, che in America era pagato il 4%, in Germania era compensato l’8%, il doppio.
In più, i salari tedeschi erano bassi, e i salari bassi stimolano investimenti industriali. Il capitale americano finanziò il più impressionante rammodernamento dell’apparato industriale tedesco, la riorganizzazione del sistema ferroviario, una immensa bolla edilizia.
Nei pochi anni della Repubblica di Weimar (1919-1933) il lusso, i fiumi di champagne, le donnine allegre, tripudio di transex nei locali notturni berlinesi, insomma “la cultura” dell’edonismo che conosciamo, ebbe la sua prima edizione.
In quegli stessi anni, milioni di tedeschi dalle campagne furono risucchiati nelle città, come operai. Berlino passò da 2 a 6 milioni di abitanti. Abitanti i cui bassi salari erano falcidiati dal caro-affitti e dal rincaro dei generi alimentari.
Cosa avviene quando il capitale è retribuito a scapito del lavoro? Quella che il capitalismo chiama “sovrapproduzione”: merci sempre più abbondati trovano sempre meno acquirenti, perché le masse non hanno potere d’acquisto.
Anche allora, la dirigenza tedesca adottò, come terapia, la deflazione. Lo ha descritto Bruno Heilig, un giornalista ebreo che nel ’38 scampò ai nazisti con la fuga. “Ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo i salari e licenziando lavoratori”; sostituiti da macchinari, che aumentavano la “produttività”.
Ma “per ogni lavoratore licenziato, era anche un consumatore che spariva”. Nel 1931, invece di aumentare i salari, si prese la misura disperata di ridurre la produzione di merci.
Ma per gli industriali, “tasse, ammortamenti, affitti, gli interessi sul debito, ossia i costi fissi, divisi su un numero minore di beni, aumentarono in proporzione inversa sui profitti calanti, fino a divorarli”. Industrie fallirono a catena.
Frattanto la crisi del ’29 aveva prosciugati il flusso dei capitali facili americani. La banche tedesche cominciarono a fallire, perché gli imprenditori non pagavano più i debiti (oggi si parla di non performing loans, NPL).
La Angela Merkel o Schauble dell’epoca si chiamava Heinrich Bruning, cancelliere cattolico, allievo modello del capitalismo liberista: “Decretò una riduzione generale dei salari, che furono tagliati del 15%”, raccontò Heilig.
La logica dietro questa crudele follia era: riducendo il potere d’acquisto dei lavoratori, anche i prezzi avrebbero finito per ridursi. Anche allora, il prezzo della riduzione alla fame dei lavoratori non parve indegno di essere pagato, come oggi dei greci.
Contrariamente a quel che credono gli pseudo-economisti della Rai, non fu l’iper-inflazione a portare Hitler al potere. Quella era avvenuta nei primi anni ’20. Fu la deflazione di Bruning.
Il numero dei deputati nazisti salì da 8 a 107. Nel gennaio ’33, Hitler salì al potere e operò quel miracolo economico che ho descritto nel mio saggio “Schiavi delle Banche”.
Qui da noi, i populisti sono arrivati forse troppo tardi e deboli(?).
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