La decontribuzione per gli under 29 costerà 5 miliardi di euro alle casse dello Stato. Senza portare benefici strutturali all’occupazione.
Sul ciclo elettorale della spesa pubblica c’è una montagna di letteratura economica. Siamo a fine legislatura e le prossime elezioni politiche sono quanto mai incerte, considerando oltretutto la legge elettorale con cui probabilmente si voterà. Ecco perché Matteo Renzi e le molte diverse anime del Pd chiedono che la legge di bilancio 2018 sia la somma di più coriandoli elettorali possibili, invece di contenere una o due scelte secche di priorità.
Due premesse dovrebbero essere prioritarie, ma non lo saranno. La prima è che persino i keynesiani dovrebbero sapere che quando riparte il Pil e la congiuntura migliora è tempo di ridurre il deficit, non di ampliarlo. Ma Renzi chiese esattamente l’opposto. La seconda è che i bonus a tempo non ottengono i risultati sperati. Famiglie e imprese tesaurizzano il possibile perché sanno che i benefici cesseranno. E la riforma Fornero ha ottenuto l’effetto di concentrare il beneficio della ripresa occupazionale sugli over 50enni, non sui giovani. Mentre sul totale degli occupati non si è riusciti affatto a contenere drasticamente i contratti a tempo.
Pier Carlo Padoan ed Enrico Morando avevano scelto due priorità, trascurate dal governo Renzi: l’abbattimento contributivo per i giovani e il potenziamento ulteriore degli strumenti attuali rivolti ai più poveri, «bucati» clamorosamente dal bonus 80 euro. Ma Renzi ha suonato le trombe ai suoi. Per i giovani bisogna aggiungere da subito sconti sull’età pensionabile a venire. Bisogna estendere anche i prepensionamenti ai più anziani. Bisogna spendere molto di più, e non dar retta al tetto di deficit contrattato con l’Europa, per altro precedente al consolidarsi della ripresa.
Anche l’impostazione iniziale di Padoan aveva un difetto. Il dimezzamento dei contributi previdenziali alle imprese che assumessero under 29enni è triennale, dopo il bonus sparisce, o meglio Padoan spera che poi in parte possa diventare strutturale, deficit permettendo. Ma è solo una speranza: come immaginare che questa misura produca 900 mila contratti non occupati in più. In questi termini, la misura costa 2 miliardi e rotti nel 2018, e più di 5 nel triennio. Ed ecco che Confindustria ha preso la palla al balzo. Se i giovani sono la priorità, dateci il 100 per cento di decontribuzione e ne firmiamo 900 mila, di contratti nuovi in tre anni. Ma allora servono 10 miliardi. L’impostazione del Pd renziano, però, è un’altra. Sommare misure in deficit molto onerose per prepensionare giovani e anziani. E allora si può essere certi di tre cose.
Primo, la lista della spesa elettorale Pd diventerà ancora più lunga.
Secondo, ci si dimentica che il miracolo di Mario Draghi, l’unico che ci ha salvato con acquisti di titoli a valanga, si avvia a cessare e resteremo senza paracadute. Servirebbe un segnale preciso di contenimento del debito, e invece il governo parla di rinazionalizzare la rete Telecom.
Terzo: procedere coi bonus a tempo deriva dall’incapacità di trovare coperture significative per misure universali e permanenti.
La Flat tax al 25 per cento proposta dall’Istituto Bruno Leoni riconosce che attuandola si creerebbe un minor gettito e dunque un deficit di 31,2 miliardi, da coprire con tagli di spesa. Ebbene la panoplia di bonus a tempo di Renzi in tre anni, sommandone tutti i fantasiosi tipi, ha mobilitato oltre 40 miliardi di spesa: era molto meglio cambiare dalle fondamenta il sistema fiscale, per renderlo meno rapinoso con effetti permanenti coprire con tagli di spesa. Ebbene la panoplia di bonus a tempo di Renzi in tre anni, sommandone tutti i fantasiosi tipi, ha mobilitato oltre 40 miliardi di spesa: era molto meglio cambiare dalle fondamenta il sistema fiscale, per renderlo meno rapinoso con effetti permanenti.
Fonte: qui
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