“Partito senza popolo”. Provate a googlare queste tre semplici parole e i risultati non vi lasceranno sorpresi: nelle prime cinque pagine (non siamo andati oltre, lo confessiamo) viene citato, nove volte su dieci, il Pd. È questo lo stato d’animo con cui il maggior partito della sinistra europea (fino alla prossima primavera) si sta avvicinando ad ampie falcate verso il suicidio finale: il congresso e le relative primarie.
Quella che poteva essere l’occasione per una rifondazione, si trasformerà (si è già trasformata, in realtà) nell’ennesima, estenuante, resa dei conti tra correnti e correntine, capibastone sempre più stanchi e spuntati, peones preoccupati per il loro mutuo milionario, tifosi che si massacrano sui social e poi vanno a fare l’aperitivo in centro. Il tutto con sondaggi sempre più drammatici, che fotografano l’impossibilità del Pd di rappresentare un’alternativa a Lega e Cinque Stelle, nonostante i due movimenti di governo stiano facendo di tutto per agevolare il compito all’opposizione.
Ma quando un partito ha perso il contatto con la realtà in maniera così evidente, è difficile pensare di poter convincere l’elettorato a votarlo. Quindi il Pd ha deciso di concentrare tutte le sue attenzioni in ciò in cui non ha mai avuto rivali: autodistruggersi. Tre candidati principali in campo (probabilmente), oltre ad un gruppetto di candidati minori, per prendere la guida del partito e condurlo alle elezioni europee più importanti della storia. Nicola Zingaretti, il primo ad ufficializzare la sua corsa, Marco Minniti, che dovrebbe farlo in settimana, Maurizio Martina, l’uomo che si è caricato il partito sulle spalle dopo il disastro del 4 marzo. Un convitato di pietra: Matteo Renzi, che non ha mai veramente lasciato la guida del partito (comandando a bacchetta la corrente più numerosa al suo interno, soprattutto nei gruppi parlamentari), e che sta facendo letteralmente di tutto per far saltare il banco.
La situazione è tragicomica.
Zingaretti, Minniti e Martina – al di là di qualche differenza spinta in maniera caricaturale dai rispettivi fan – sono dei candidati che non possono essere considerati così agli antipodi.
Al primo viene accusato di voler rifare i Ds e a aprire il dialogo con i Cinque Stelle.
Al secondo di aver spianato la strada a Salvini, con politiche disumane sui migranti.
Al terzo un certo grado di opportunismo.
Tutto questo nonostante Zingaretti abbia più volte smentito di volere un accordo con i grillini, Minniti abbia sempre parlato di sicurezza e integrazione come di due concetti inseparabili, Martina abbia fatto ciò che doveva fare per far sopravvivere il Pd alla disfatta elettorale. Eppure si è scelto di alimentare strumentalmente queste differenze, invece di trovare un’intesa che possa portare i dem a guidare quel listone anti-sovranista che il 56% dei loro elettori ha detto di desiderare in vista del voto europeo.
Invece nulla, nessuno fa un passo indietro. E si rischia così di precipitare verso una situazione paradossale, anch’essa già fotografata da tutti sondaggisti: nessuno dei tre candidati raggiunge il 50 per centro alle primarie, a decidere chi diventerà segretario sarà l’assemblea nazionale. Inutile dire che a quel punto, quel che resta del Pd, sarà in mano alle correnti.
E il tutto diventerà un’ultima, disperata, corsa ad accaparrarsi quelle poche rendite di un potere che ormai non c’è più. Con un epilogo che sembra già scritto, anche perché già percorso da altri soggetti politici in passato, come il Psi post-Craxi. Cespugli in uscita dal Pd. Ad andare bene, lo scenario che potrebbe profilarsi, sarebbe quello di un partito che si divide in due:
da una parte i renziani che vanno con Forza Italia a formare un partito di centro liberale, alla Macron;
dall’altra il corpaccione del partito che si sposta a sinistra, tentando di dialogare con l’ala anti-governista dei Cinque Stelle.
Forse c’è chi, addirittura, si potrebbe ricordare che esistono le politiche ambientali, dopo i successi dei Verdi in giro per tutta Europa. Ma potrebbe anche andare peggio.
Chi sicuramente non sta lavorando per l’unità è Matteo Renzi, che poi è anche la causa principale di quel che sta succedendo oggi. A qualche anno di distanza, si può dire con relativa certezza che il Pd non ha retto all’urto renziano. E che lo stesso ex sindaco di Firenze non ha retto la sfida di cambiare (in meglio) il Pd. Anzi, l’ha praticamente distrutto, sia politicamente, sia economicamente, sia a livello di percezione sociale.
Quel che succede oggi è il frutto di dieci anni di scelte sbagliate, da Veltroni in poi, e di due anni, gli ultimi, di corto circuito totale. Dalla campagna referendaria in poi non si contano i fallimenti, gli scontri inutili, le occasioni perse, la mancanza di una linea politica condivisa, l’incapacità cronica di saper parlare alla gente, l’inguaribile arroganza, il pressappochismo gestionale e amministrativo. E chi più ne ha più ne metta. L’autoimplosione è iniziata da tempo. E vedere Renzi, ancora oggi, parlare di “fuoco amico” come unica ragione della sconfitta, tirare bordate ai compagni, riesumare il mantra morto e sepolto della rottamazione, lavorare scientificamente per far fallire qualsiasi ipotesi di segreteria che non dipenda direttamente da lui, fa la stessa tristezza di vedere ora il codazzo di politica residuale, una volta adorante e disposto a fare qualsiasi cosa per entrare nelle grazie del Giglio Magico, voltare le spalle al vecchio “capo” per cercare nuovi lidi.
Ciò che nessuno al Pd (e tra coloro che il Pd l’hanno abbandonato per cercare fortuna altrove, trovando solo delusioni ancora peggiori) ha capito è che quei lidi non esistono più. Sono stati travolti dall’ondata autoflagellatoria di un partito incapace di guardare oltre il proprio naso e che, forse per l’ultima volta, sta scrivendo l’ennesima pagina buia di una storia troppo brutta per essere vera.
Di Giulio Scranno
Da: Linkiesta
Fonte: qui
ALL’ASSEMBLEA DEL PD RENZI NON SI FA VEDERE, MARTINA LASCIA LA SEGRETERIA E MARCO MINNITI TACE SULLA CANDIDATURA ALLE PRIMARIE
L’ASSENZA DELL’EX SEGRETARIO ERA PREVISTA MA NON FA CHE ALIMENTARE I SOSPETTI CHE VOGLIA MOLLARE IL PARTITO
MARTINA HA INCASSATO LA SUA PRIMA STANDING OVATION NEL MOMENTO IN CUI HA CONFERMATO LE DIMISSIONI…
Matteo Renzi non partecipa all’assemblea nazionale del Pd a Roma, all’hotel Ergife dove Martina ha formalizzato il suo addio alla segreteria accolto da un lungo applauso. Nel pomeriggio, il presidente dell’assemblea Matteo Orfini, dopo averne decretato lo scioglimento, ha avviato ufficialmente il percorso congressuale — dal momento che non è uscita nessuna candidatura con relativa raccolta di firme — Orfini, ha anche convocato la Direzione per l’elezione della Commissione che governerà il partito nei tre mesi di durata del Congresso.
L’ASSENZA DELL’EX PREMIER
L’assenza di Renzi, comunque, era già nota da qualche giorno. Secondo alcune voci della vigilia, anche altri «renziani» sarebbero stati intenzionati a disertare per far mancare il numero legale. Ma così non è stato. In molti interpretano l’assenza dell’ex premier come una manifesta «lontananza» dal Pd: secondo alcuni, Renzi starebbe addirittura valutando se rimanere ancora nel partito o intraprendere una nuova avventura.
Lo dimostrerebbe il «like» postato tre giorni fa al commento di un suo sostenitore che su Facebook lo invitata ad uscire dal Pd «zavorra». Conferme arrivano anche da un parlamentare a lui molto vicino: il suo ruolo nel convegno sarà molto defilato, per lasciare spazio agli altri esponenti, il suo impegno principale sarà quello di svolgere al meglio il ruolo di senatore e di dare una mano in campagna elettorale per le amministrative di Firenze a sostegno di Dario Nardella.
L’appello del governatore del Lazio e candidato alla segreteria Nicola Zingaretti: «Venite a votare alle primarie. A chi scriverà le regole mi permetto di suggerire di far partecipare tutti eliminando quei due euro per venire a votare, non si deve pagare ma fare una sottoscrizione».
NESSUNA CANDIDATURA IN ASSEMBLEA
All’apertura formale del congresso, sulle note dell’inno di Mameli, Martina ha formalizzato le dimissioni da segretario. Chi si aspettava la candidatura ufficiale di Marco Minniti come suo successore è rimasto deluso: l’ex ministro dell’Interno ha lasciato l’assemblea nazionale senza rendere manifesta la sua decisione.
Secondo alcune voci, Minniti dovrebbe sciogliere domenica la riserva sulla sua candidatura alla segreteria dem anche se sembra ancora pesare sulla sua decisione la modalità della sua discesa in campo e, soprattutto, l’eventuale ticket con Teresa Bellanova. Un ticket di cui l’ex ministro, stando a quanto si apprende da fonti parlamentari vicine a Renzi, non vorrebbe nemmeno sentire parlare.
Le stesse fonti riferiscono che i contatti tra l’ala renziana del partito e gli esponenti più vicini all’ex responsabile dell’Interno sono andati avanti nelle ultime ore, con incontri venerdì, a Firenze (dove Minniti ha presentato il suo libro assieme a Renzi) e anche sabato mattina a Roma, prima dell’assemblea.
«Finora non ci sono i candidati. Quando ci saranno valuterò chi mi rappresenta al meglio» ha detto il presidente dell’assemblea del Partito Democratico, Matteo Orfini. «Non è l’assemblea a decidere la data delle primarie ma la Commissione. L’auspicio è che si faccia il prima possibile. Abbiamo una procedura fissata dallo statuto», ha concluso Orfini.
TIMMERMANS: «CREDO IN EUROPA UNITA»
«Ritiratevi tutti». Ha detto, dal palco dell’assemblea, Katia Tarasconi, consigliera regionale in Emilia Romagna, rivolgendosi ai dirigenti dem. «Abbiamo bisogno di persone nuove, pensanti e non riconducibili a nessuna corrente. Il Pd deve essere libero e non ostaggio di qualcuno. Noi dovremmo essere il partito che sta in mezzo alla gente e invece vedo già qua dentro un cordone che divide l’assemblea: quelli importanti separati da tutti gli altri. Non va bene, dobbiamo essere tutti insieme», ha concluso Tarasconi.
Tra i presenti anche Paolo Gentiloni e Frans Timmermans, candidato del Partito socialista europeo (Pse) alla guida della Commissione Ue, che ha ricevuto una standing ovation: «Io credo in un’Europa unita. Noi dobbiamo dirci di sinistra, non dobbiamo far incatenare dalle destre le persone alle loro paure. Il movimento di sinistra dev’essere ottimista: possiamo vincere».
L’INTERVENTO DI MARTINA: «CONFERMO DIMISSIONI»
«Mettiamo in campo insieme una nuova stagione di unità»: è questo l’appello lanciato dal segretario uscente, Maurizio Martina, nel confermare le sue dimissioni. «Capita che in una forza come la nostra troppo spesso non riusciamo a far prevalere gli elementi che ci uniscono e che sono tanti e determinanti rispetto a quelli che ci dividono. Ricordiamoci tutti che il nostro nemico è la destra e a nessuno di noi è consentito giocare tatticamente in maniera compulsiva su questo percorso congressuale.
Coerentemente con il mandato di luglio confermo qui le mie dimissioni. Questo tempo di mare mosso è il tempo ideale per i democratici. In bocca al lupo ai candidati: chiunque essi siano saranno all’altezza della sfida che li attende». «Tocca a noi prendere per mano la sfida del cambiamento dell’Europa, rispetto a chi vuole distruggerla» ha aggiunto Martina. «Non c’è sovranità fuori dalla sfida europea. Timmermans si carica sulle spalle una battaglia cruciale per il futuro. Dobbiamo costruire insieme un progetto e una prospettiva rispetto all’Europa che vogliamo. Serve un’Europa più giusta e più solidale, che sconfigga alla radice quella illusione che nella distruzione del progetto europeo si trova più tutela. È una follia».
«PECCATO NON CAMBIARE LO STATUTO»
«Un congresso può essere uno strumento utile per parlare prima di tutto al paese, dipende solo da noi. Il congresso non è un fine, è un mezzo. Mi sarebbe piaciuto che questa assemblea valutasse i cambiamenti statutari per rendere il partito più in sintonia con la società. Non ce l’abbiamo fatta. Ma dobbiamo ricostruire i rapporti cruciali con la società italiana». Questo l’intervento del segretario uscente, Maurizio Martina, all’assemblea del Pd a Roma.
«C’è bisogno che il Pd metta in campo la sua alternativa al questo governo. Tutti avvertiamo l’insufficienza del lavoro fatto fin qui, sentiamo su di noi di non essere ancora compiutamente all’altezza della partita aperta. Trasformiamo questa insufficienza in una proposta. Se guardo al Paese avverto come voi la strategia folle che Lega e Cinque Stelle stanno giocando sulla pelle degli italiani. Vicende di quest giorni indicano chiaramente il baratro su cui stanno facendo giocare il Paese per interessi di bottega. C’è un noi che deve sempre prevalere rispetto ai giudizi personali e alle ambizioni».
Fonte: qui
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