In quello che a mio parere è da considerarsi il suo capolavoro, I demoni, Fedor Dostoevskij ammonisce così il lettore da facili giustizialismi e ricorsi a soluzioni “di pancia”: «Capisci che se mettete in primo piano la ghigliottina e con tanto entusiasmo è semplicemente perché tagliar teste è la cosa più facile, mentre avere un’idea è la più difficile». Oggi come non mai, quella lezione pare di stringente e inquietante attualità. E non mi riferisco in particolar modo alla questione immigrazione, la stessa che ha portato la destra estrema svedese al suo miglior risultato elettorale di sempre alle politiche di domenica, di fatto paralizzando la scena politica di una nazione che da inizio Novecento (1908, per la precisione) vedeva al potere i Socialdemocratici, parlo di un’impostazione generale, una narrativa nata con la vittoria di Donald Trump, germogliata con il “sì” al Brexit e poi dilagata in mezzo mondo. Chiamatelo sovranismo, chiamatelo populismo, chiamatelo come vi pare: è una bugia sesquipedale. E pericolosa. Perché strumentale al mondo perverso che l’ha creata: ovvero, le stesse élites che formalmente dice di voler contrastare, combattere e rimpiazzare in nome del famoso 99% di popolazione esclusa dalla cosiddetta “ripresa globale” e dal benessere garantito dalla rivoluzione globalista partita con Clinton e Blair.
Più che il millantare emergenze e vendere false vittorie sul fronte sicuritario, infatti, mi spaventa altro. Sono altre le ghigliottine che contano, quelle nelle cui lame si specchiano le opinioni pubbliche in modalità Robespierre e alla ricerca di vendetta, di sangue, di rabbiosa rivalsa. Prendete l’economia. E prendete proprio Trump e il suo mantra, America first. Un qualcosa che parte da lontano, lo slogan della campagna elettorale, ma che aveva fin da principio un obiettivo chiaro: millantare con una patriottica quanto fantomatica autarchia la necessità dell’America, intesa proprio come motore globalista, di riequilibrare le distorsioni prima di un processo di globalizzazione senza freni sfuggito dal controllo e poi di anni e anni di tassi a zero e denaro a pioggia messi in campo dalle Banche centrali per tamponare gli eccessi del braccio armato e operativo delle vere élites, ovvero Wall Street.
Ecco quindi emergere, di colpo, la nuova emergenza: la guerra commerciale con la Cina. La quale, quasi immediatamente, subisce un silenzioso morphing in contrasto e offensiva economica contro l’Ue, vero bersaglio di un processo più ampio. Ecco scattare minacce e, soprattutto, sanzioni e contro-sanzioni sui beni per centinaia di miliardi di dollari: tu tassi il mio export? Il tasso il tuo per identico controvalore e vediamo chi cede per primo. Serve davvero a qualcosa questa politica? Ha un’utilità reale a livello di crescita delle economie sovrane? Davvero i dazi garantiscono l’opzione fattiva al progetto di America first che i sovranisti di mezzo mondo ora vorrebbero copiare, pur sapendo che un mondo interconnesso come quello in cui viviamo non garantisce nemmeno una settimana di sopravvivenza a chi esca dal sistema, dal Matrix? No, è solo un’enorme bugia nella bugia. Al netto della retorica e dell’ulteriore minaccia della Casa Bianca di nuove sanzioni su prodotti cinesi per 267 miliardi di dollari, la realtà della cosiddetta “guerra commerciale” comincia infatti a emergere sempre più nitida, come ci mostra questo grafico.
Dopo l’ammissione del peggioramento del deficit commerciale Usa verso la Cina nel mese di luglio delle autorità statunitensi di venerdì, sabato è stata la volta dell’Agenzia per le dogane di Pechino, la quale ha confermato un nuovo record mensile di surplus in agosto verso Washington, registrando una lettura di 31,05 miliardi contro i 28,09 del mese precedente. Il perché di questo dato è presto detto: al netto della retorica della Casa Bianca e dei suoi megafoni interni ed esteri, ad agosto le importazioni cinesi di beni statunitensi sono cresciute solo del 2,7% contro l’11,1% di luglio, mentre l’export di Pechino verso gli Stati Uniti ha accelerato, crescendo del 13,2% dall’11,2% di luglio. Questo, nonostante il mese di agosto sia stato il primo con in vigore a pieno le tariffe sull’export di beni cinesi per 50 miliardi di dollari imposte da Washington.
Insomma, il Re comincia davvero a essere nudo. Ma la gente non lo sa, perché ciò che viene raccontato è altro. Da un lato i sovranisti e la loro delirante ma efficacissima macchina di propaganda social spandono a piene mani la vulgata del successo senza se e senza ma della ricetta autarchica, sia essa quella statunitense che quella dell’Ungheria di Orban (dimenticando, in questo secondo caso, ad esempio di dire quanto pesino i fondi strutturali dell’odiata Ue su quei dati di crescita che tanto entusiasmano), dall’altra la stampa cosiddetta mainstream o autorevole è tutta compiaciuta e concentrata nella battaglia cosiddetta “culturale” contro i barbari che bussano alle porte, sposando ad esempio crociate di retroguardia come quelle del movimento Metoo e del caso Weinstein, brandita come una clava contro il sessismo violento e reazionario del trumpismo, salvo poi dover prendere imbarazzate distanze dall’Asia Argento di turno. Ma come stanno le cose, non ve lo dice nessuno. E la dinamica in atto, per quanto sottenda strategie economiche e geopolitiche fittissime e intricate, è semplice: Usa e Cina vogliono arrivare al redde rationem su chi governerà il mondo (e in tal senso, il neo-annunciato piano di ulteriore investimento economico cinese in Africa para chiaro su chi sia ampiamente in vantaggio) senza l’ingombro europeo fra i piedi. O meglio, con un’Europa talmente debole da diventare essa stessa bersaglio del loro Risiko, terra di conquista, Eldorado di spartizione.
Come leggere, altrimenti, l’addio del conglomerato cinese Hna Group all’azionariato di maggioranza relativa in Deutsche Bank, annunciato lo scorso venerdì dal Wall Street Journal, casualmente a pochi giorni dall’estromissione ufficiale del titolo del gigante tedesco del credito (e dei derivati) dall’indice benchmark europeo dei titoli a maggiore capitalizzazione, lo Stoxx 50? I cinesi scappano perché temono il botto, la seconda Lehman? Idiozie, per il semplice fatto che se saltasse Deutsche, il problema non sarebbero i 22 miliardi di perdita potenziale sui derivati (letale, visto che la capitalizzazione attuale è di 21 miliardi), bensì la catena di controparte che innescherebbe attraverso i contratti di cui è primary dealer e broker: DB è davvero too big to fail. Anche per Usa e Cina. Si vuole fare paura, si vuole intimidire, minacciare. Si lanciano avvertimenti.
Come quello partito solo domenica da un gruppo di avvocati statunitensi nei confronti della sempre tedesca Bayer e riportato in splendida solitudine da Euronews. Casualmente, infatti, i legali in questione stanno curando una causa contro Monsanto di fronte a un Corte della California ed ecco le parole rilasciate, in sprezzo della deontologia, da uno di loro, Robert Kennedy Jr: «Ciò che abbiamo visto finora è soltanto la punta dell’iceberg. Infatti, oggi noi abbiamo a disposizione nuovi documenti, diverse centinaia di documenti, che non erano stati declassificati e alcuni dei quali sono addirittura esplosivi. E molti di essi riguardando attività di Monsanto proprio in Europa». E chi ha acquistato lo scorso giugno Monsanto per la cifra record di 66 miliardi di dollari? La Bayer AG, appunto, leader industriale e punta di diamante dell’economia tedesca a livello globale, non fosse altro per i brevetti e la ricerca.
Insomma, nell’arco di 72 ore, da Washington e Pechino sono giunti due siluri contro Berlino potenzialmente devastanti: l’azionista cinese che dice addio a Deutsche Bank, la quale vedrà quindi al comando nella prospettiva futura, oltre al fondo del Qatar, due soggetti statunitensi, BlackRock e Cerberus e quindi pare ora obbligata all’arrocco (molto rischioso) della fusione con Commerzbank e dall’altro la minaccia di un trattamento proprio stile Deutsche Bank verso Bayer, ovvero multe miliardarie per altrettante cause molto mediatiche intentate negli USA. Come quella che poche settimane fa ha visto un ex giardiniere, Dewayne Johnson, risarcito con 289 milioni di dollari da un tribunale Usa che ha ritenuto responsabile per il suo tumore il prodotto diserbante Roundup, prodotto proprio della Monsanto. Direte voi, giusto così, se avveleni la gente, devi pagare. Vero, peccato che dopo anni e anni di denunce, le prove della nocività dei prodotti Monsanto per l’agricoltura siano miracolosamente saltate fuori solo adesso, quando la proprietà non è più statunitense ma tedesca! Che combinazione!
E sapete, colmo della più classica beffa che si unisce al danno, cosa accade proprio in ambito farmaceutico-sanitario negli Usa, esattamente in contemporanea con la nemmeno troppo velata minaccia dei solerti avvocati californiani? Lo ha scritto il Financial Times ma in Italia nessuno ha ritenuto che la notizia avesse i crismi sufficienti per essere ripresa: la Purdue Pharmaceutical, colosso dei farmaci Usa essa stessa oberata di cause nelle aule dei tribunali americani per il suo brevetto di un farmaco, l’Oxycontin, a base di oppiacei che porta dipendenza letale, ha ottenuto il via libera per il brevetto di un nuovo prodotto che verrà utilizzato per curare la dipendenza da farmaci oppiacei! Prima fai esplodere l’epidemia, poi commercializzi la cura: ecco l’enorme moralità dell’America che minaccia Bayer di cause miliardarie per le eventuali colpe di Monsanto, quando questa era ancora di proprietà statunitense! Un po’ come se una ditta produttrice di metal-detector si scoprisse che produce anche particolari pistole in ceramica che riescono a sfuggire ai controlli all’ingresso delle banche. Ma queste cose non ve le dicono, state certi. Perché cadrebbe l’intero castello stesso della retorica sovranista dell’amministrazione Usa come faro di libertà e Sol dell’avvenire, quella che qualche genio del sovranismo nostrano vorrebbe come stella polare della politica estera ed economica italiana.
E, casualmente, domenica sera è giunta la notizia, ufficiosa ma molto credibile, che la Germania si sarebbe detta pronta a partecipare al bombardamento di obiettivi siriani accanto a Francia, Usa e Gran Bretagna, se Assad usasse armi chimiche durante l’attacco finale per liberare Idlib. E, sempre casualmente, ieri il Wall Street Journalapriva la sua edizione con la notizia, attribuita a una fonte anonima dell’amministrazione Usa, in base alla quale «Bashar al-Assad ha già approvato il piano di utilizzo di gas al cloro per l’offensiva finale da lanciare contro la roccaforte dei ribelli». Siamo all’accusa preventiva, all’accertamento ex ante dei fatti, roba orwelliana da psico-polizia. Anzi no, amici miei, siamo soltanto alla normale prassi di lotta geopolitica fra apparati dello Stato al massimo livello. E senza esclusione di colpi e nefandezze, roba da far impallidire Machiavelli. E questa la rivoluzione sovranista, piegare a colpi di minacce mafiose e attacchi concentrici a livello economico l’architrave dell’Unione europea e, nel frattempo, proseguire con la campagna di destabilizzazione bellica mondiale per mantenere vivo il warfare, il moltiplicatore del Pil che fa la fortuna del comparto bellico-industriale su cui si regge, insieme al debito, l’intera struttura della società statunitense, oltre all’amministrazione Trump e al suo stanziamento record per il Pentagono nel Budget 2019? È questo l’alleato che volete, pur di fare un dispetto alla Merkel? Ma, soprattutto, è questo il modello di società cui aspirate?
L’Ue, al netto delle balle e della retorica, nacque per un unico motivo e su mandato specifico statunitense: tenere sotto controllo il nazionalismo tedesco dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Col tempo, però, quella creatura si è evoluta e ora è un competitor, prima economico che politico: che va eliminato, almeno nella sua forma ed equilibrio attuali. La battaglia in atto è questa, niente altro. Ricordatevene bene il prossimo maggio, quando vi recherete ai seggi per le elezioni europee e dovrete mettere una croce su un futuro tremendamente imperfetto ma perfettibile di indipendenza come Unione o il diventare i sorridenti schiavi di Usa e Cina.
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