Facciamo un test: quale notizia dall’America ha monopolizzato la vostra attenzione mercoledì? Ovviamente, il dietrofront di Donald Trump sulla divisione delle famiglie di immigrati al confine con il Messico, dopo che le immagini virali dei bambini piangenti chiusi nelle gabbie come animali hanno fatto indignare il mondo. Non pensiate che sia un caso. Non è un caso che la questione immigrazione, seppur con sfumature differenti, stia infiammando e monopolizzando il dibattito pubblico e politico contemporaneamente sia negli Usa che in Europa: fateci caso, non si parla d’altro.
Per noi italiani, poi, la questione appare addirittura vitale per il governo giallo-verde, visto che si profila uno scontro senza precedenti fra Roma e il resto dei membri Ue in vista della riunione preparatoria di domenica e del vertice europeo della prossima settimana, fondamentale per la tenuta stessa dell’Unione quanto il whatever it takes di Mario Draghi. Di colpo, torna il problema immigrazione. Sulle due sponde dell’Atlantico. Curioso.
E poi, davvero pensate che Donald Trump era indebolito e ulteriormente macchiato nell’immagine da questa vicenda? Tutt’altro, ha ottenuto il massimo. Perché l’intera tragicommedia delle ultime 72 ore fa riferimento a un copione preciso: vi pare normale, infatti, che la First Lady attacchi il marito via Twitter su un tema di questa sensibilità? Va bene il “fuoco amico”, ma c’è un limite. Anzi, in questo caso c’è un fine: quello di dare il via a un classicissimo di Hollywood, ma anche delle strategie di dissimulazione, ovvero il gioco delle parti del poliziotto buono e quello cattivo. Cosa scriveva Melania Trump nel suo tweet? Che occorreva governare con le leggi, ma anche con il cuore e, soprattutto, che si auspicava un accordo bipartisan sulla materia a livello parlamentare. E l’ha ottenuto. Ma è il marito ad aver cercato quel risultato, altrimenti irraggiungibile, anche solo per ragioni meramente ideologiche e tattiche da parte del fronte Democratico. E cosa ha permesso di fare a Trump il trambusto globale, soprattutto social, di quelle immagini strazianti? Di rendere noto al mondo ciò di cui il mondo era stato tenuto all’oscuro, debitamente: che la pratica della divisione delle famiglie non solo è in atto negli Usa, sistematicamente, dall’era Clinton, ma che uno dei suoi utilizzatori più convinti e frequenti è stato il Premio Nobel per la pace, Barack Obama. Nessuno lo sapeva, oggi lo sanno tutti.
Controinformazione indotta, roba orwelliana, ma che diventa pratica semplice semplice al tempo dei social network. Un colpo politicamente da maestro, a cinque mesi dalle elezioni di medio-termine e con la pistola del Russiagate ormai completamente scarica nelle mani del procuratore Mueller e dei Democratici. Non c’è stato nulla di spontaneo in quanto accaduto negli Stati Uniti negli ultimi tre giorni.
E lo stesso vale per la Ue. Pensateci: chi mai avrebbe pensato possibile una sfida alla leadership come quella lanciata sul tema migranti dal ministro dell’Interno e leader bavarese, Horst Seehofer, ad Angela Merkel? Oltretutto, dopo sei mesi di travagli post-elettorali per arrivare a un governo il meno raffazzonato possibile, ma pur sempre di coabitazione con la Spd, un rospo davvero duro da digerire per la Csu. Il tutto con la Baviera che, a ottobre, andrà al voto e potrebbe, se passerà indenne il test del vertice europeo, rimettere in discussione il cancellierato, in caso di cattivo risultato a favore di AfD per l’eccessivo lassismo dell’alleato Cdu riguardo al tema dei respingimenti.
E l’Italia? All’angolo, almeno formalmente. O, quantomeno, in ordine sparso, visto che Salvini ha fatto sponda proprio con il ribelle Seehofer e il governo austriaco (presidente di turno dell’Unione da luglio) per la linea dura, contando anche sull’appoggio – politicamente e mediaticamente scomodo da gestire – del Gruppo di Visegrad, i Paesi di ex influenza sovietica che hanno detto da subito no alla politica delle quote. Nel mezzo, Emmanuel Macron, pronto a capitalizzare le debolezze e gli scontri altrui, forte di una stabilità interna quasi da Re Sole, garantitagli dai poteri eccezionali post-Bataclan messi in Costituzione e da un’opposizione francese, di destra e sinistra, tanto belligerante a parole quanto evanescente nei fatti.
Insomma, come vedete, c’è molto sotto il pelo dell’acqua dell’ufficialità. Ad esempio, per Donald Trump c’è questo.
Il fatto che la scelta di scatenare, almeno formalmente, una guerra commerciale contro la Cina non solo ha di fatto colpito solo l’Europa, almeno a livello di dazi sui metalli, ma ha visto Pechino inviare, silenziosamente, un promemoria molto chiaro a Washington, in caso pensasse di andare davvero fino in fondo: nella prima metà di quest’anno, infatti, gli investimenti diretti cinesi negli Stati Uniti sono calati del 92% su base annua, con accordi e contratti chiusi per un controvalore di soli 1,8 miliardi di dollari, il minimo da sette anni a questa parte.
Come dire, adesso come la finanzia la politica del Make America great again, con le carte revolving dei cittadini subprime pignorati? O con il deficit, spedendo la ratio debito/Pil alle stelle e obbligando il Treasury a emissioni record l’anno prossimo, di fatto drenando dollari da un mercato globale che già li tratta come pietre preziose, vista la scarsità di collaterale liquido in biglietti verdi e la scelta suicida della Fed, che sta già cominciando a dissanguare i mercati emergenti?
Ma il caos migranti e l’indignazione di massa per i bimbi piangenti strappati alle famiglie al confine con il Messico serve a coprire anche altro, ad esempio questo.
Negli ultimi quattro giorni Wall Street ha patito il più grande short-squeeze della storia, ovvero i titoli più soggetti a scommesse ribassiste sul mercato azionario Usa hanno registrato invece aumenti del 20% negli ultimi due mesi e ora è arrivato il momento della grande ricopertura, un qualcosa che rimanda echi del 2000 e, soprattutto, del 2007.
Scommetto che, presi come eravate a commuovervi per i bimbi messicani, vi è sfuggita un’altra cosa: con la chiusura di mercoledì, il Dow Jones ha registrato sette rossi consecutivi, la peggior striscia di performance da 18 mesi. Eppure i mercati parlano solo di mercato Usa che viaggia come una locomotiva: basta scatenare altre “priorità” e quando arrivano le brutte notizie, si fa presto a farle sparire. O nasconderle per bene.
E l’Europa? E l’Italia? Per la prima, bastano questi due grafici(ed il terzo).
Il primo ci dice un qualcosa di tecnico, ma che cercherò di spiegarvi in maniera semplice, visto che è di enorme gravità. Il 7 maggio scorso è emerso presso i regolatori il fatto che, nel primo trimestre di quest’anno, un gruppo di sconosciuti traders di Deutsche Bank è incorso in una perdita giornaliera pari a 12x sul VaR, ovvero 12 volte maggiore rispetto alla stima che gli analisti del gigante tedesco hanno fatto, ai fini della regolamentazione, per fissare il massimo gestibile di perdita giornaliera.
Avete presente il film Margin call? La logica è quella del buco nel sistema di valutazione di iscrizione a bilancio del valore degli assets scoperta dal giovane protagonista. Deutsche Bank è, di fatto, una bomba a mano innescata. Ed è, palesemente, sotto attacco speculativo Usa. Magari con l’aiuto di qualche fondo francese, quelli usati dalle grandi banche per le “operazioni coperte”: la cosa non mi stupirebbe affatto, conoscendo le mire e l’agenda politica dell’Eliseo.
Il secondo grafico parla da solo e ci dice quale sia il valore di magnitudo di Deutsche Bank, i cui assets sono ponderalmente pari al 45,3% del Pil tedesco con riferimento al dato dello scorso marzo. Non solo too big to fail, bensì big enough to destroy.
L’Italia? Ci ha pensato Goldman Sachs a dirci chiaro e tondo cosa ci aspetta con la fine del Qe, nel suo ultimo report. Lo dice questa tabella.
La tabella ci fa vedere che - nonostante gli strepiti della Bundesbank -, la politica pro-quota degli acquisti di titoli demandati dalla Bce alle varie Banche centrali vedrà l’anno prossimo la Germania in posizione invidiabile, visto che non solo le emissioni lorde di bond sovrani a lungo termine sono attese in calo, ma – vista la già sovrabbondanza di Bund detenuti - la Bundesbank reinvestirà circa 50-60 miliardi di quella carta nel suo portafoglio, continuando ad assorbire circa il 47% dell’offerta lorda attraverso acquisti nel mercato secondario anche l’anno successivo.
Non è così roseo il quadro italiano. Anzi, non lo è per niente. Il nostro Tesoro nel 2019 vedrà, infatti, la percentuale di emissioni più bassa assorbita dalla Bce a livello di eurozona, tanto che il settore privato (o le istituzioni estere) dovranno assorbire oltre l’80% delle nuove emissioni a lungo termine di titoli di Stato.
Cosa dite, lo faranno con questo governo e con la tensione che l’autunno porterà con sé, soprattutto se la Germania traballerà politicamente? E se sì, a quale premio di rischio, ovvero a quale livello di spread e quindi di aggravio dei costi per le nostre casse? E se il servizio del debito salirà alle stelle, con quali soldi lo pagheremo? Quelli accantonati per flat tax, reddito di cittadinanza o abolizione della legge Fornero? Ah no, impossibile, visto che non ci sono stanziamenti al riguardo, ma solo prospettive utopiche di maggiori entrate tramite condoni e misure una tantum o spesa a deficit. E pensate che con una situazione di insostenibilità del costo dei conti pubblici come quella prospettata da Goldman per il post-Qe, Bruxelles ci permetterà di spendere a deficit o di godere di altra flessibilità?
Siamo alle soglie della tempesta perfetta, ma nessuno pare saperlo. Perché nessuno lo dice. Ma nulla è come appare, ormai lo sapete. Prepariamoci all’arrivo della Troika come si deve. O, in subordine e in alternativa, a quello di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Comunque sia, questo governo, destinato a fare da capro espiatorio, ha i mesi contati. O le settimane.
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