Il secolo cinese trova nell’Africa il laboratorio ideale per sperimentare insieme la sua visione globale e le sue tentazioni egemoniche, replicando con ciò i comportamenti che il ricco Occidente esercita laggiù da secoli. L’Africa, con la sua immensità ricca di risorse e uomini, rimane terra di conquista pure se nella forma assai più presentabile del soft power del quale i cinesi ormai sono diventati esperti manovratori. E’ noto da anni lo sforzo economico e finanziario che la Cina ha dedicato all’Africa, e finalmente, dopo quasi un decennio di politiche di investimenti esteri, il quadro comincia a diventare chiaro. La Cina molto silenziosamente ma con grande efficacia, sta conducendo una campagna “amichevole” di conquista dell’Africa.
L’ultima notizia, che aggiunge un dettaglio importante alla nostra rappresentazione, è arrivata a fine maggio dalla capitale dello Zimbawe, dove i rappresentanti delle banche centrali e del governo di 14 paesi africani si sono riuniti per discutere della possibilità di utilizzare lo yuan nelle riserve ufficiali. Il forum, ospitato nel seno del MENFI (Macroeconomic and Financial Management Institute of Eastern and Southern Africa) aveva come tema l’evoluzione dei trend nella gestione della riserve sovrane ed era di particolare interesse nel momento in cui molte nazione africane, che detengono riserve per lo più denominate in dollari, si trovano a dover gestire al tempo stesso debiti crescenti denominati in yuan, cumulati grazie alla “generosità” degli investitori cinesi. Per questi paesi avrebbe perfettamente senso iniziare a usare valuta cinese nelle riserve per ripagare direttamente i prestiti di Pechino, anche considerando la circostanza che la valuta cinese denomina molti scambi commerciali fra Africa e Cina.
Se a ciò si aggiunge che lo yuan è stato inserito ormai da anni all’interno del basket degli diritti speciali di prelievo (SDR), ossia l’unità di conto gestita dal Fmi, l’idea dei banchieri centrali africani è perfettamente coerente nei confronti di un mondo che sta cambiando tanto profondamente quanto velocemente e che ormai parla sempre più la lingua dei mandarini. Per la cronaca, il MENFI è un istituto al quale partecipano 14 paesi africani, e in particolare Angola, Botswana, Burundi, Kenya, Lesotho, Malawi, Mozambico, Namibia, Rwanda, Swaziland, Tanzania, Uganda, Zambia e Zimbabwe. Tutti paesi che, chi più chi meno, hanno stretto legami profondissimi con la Cina grazie a una politica molto pervasiva di prestiti portati avanti dai cinesi.
Il caso dell’Angola è forse il più rappresentativo. Qualche tempo fa un giornale angolano titolò sul fatto che ogni abitante del paese avesse un debito di 745 dollari con la Cina. L’Angola ha una lunga consuetudine con i prestiti cinesi, che dura da oltre trent’anni. Si calcola che da allora nel paese siano arrivati ameno 60 miliardi di dollari. L’Angola peraltro è il secondo produttore di petrolio in Africa, un grande esportatore di greggio verso la Cina e potrebbe persino essere uno dei primi paesi a vendere il proprio prodotto direttamente in yuan, approfittando del lancio, il 26 marzo scorso, del primo future in valuta cinese. Ciò specie considerando che sempre l’Angola ha firmato, nell’agosto 2015, un accordo con la Cina per consentire l’uso reciproco delle due valute nei loro scambi commerciali.
Più di recente, a marzo scorso la Nigeria ha firmato un accordo per scambiare valuta con la Cina per un ammontare da 2,4 miliardi di dollari, replicando quanto aveva fatto nel 2016 il Sudafrica, che aveva lanciato una piattaforma di scambio iniziale tra yuan e rand, per facilitare gli scambi tra le due valute. In precedenza, il Ghana, la Nigeria, le Mauritius e lo Zimbabwe avevano accettato lo yuan per i pagamenti e le riserve, e la banca centrale nigeriana avrebbe già più del 10% delle sue riserve estere in valuta cinese.
Anche il Kenya annovera la Cina fra i suoi grandi creditori esteri. Alcune fonti stimano che che circa il 55% del suo debito estero estero sia nei confronti di Pechino. E in situazioni analoga si trovano anche altri grandi paesi africani come l’Uganda, il Mozambico e la Tanzania. Tutti questi paesi hanno trovato nella capienza finanziaria cinese una fonte straordinaria che certo non è rimasta senza contropartita. In alcuni casi in cambio dei prestiti sono state fatte concessioni, ad esempio concessioni minerarie in Congo per lo sfruttamento di rame e cobalto. Altre volte i cinesi hanno assunto la proprietà delle infrastrutture che hanno contributo a costruire, ossia porti e ferrovie. Altre volte i cinesi hanno ottenuto di poter delocalizzare in Africa le loro fabbriche replicando laggiù quello che l’Occidente ha fatto in Cina. Tutto ciò ha consentito a Pechino non solo di poter fare leva su un’economia debole ma ricca di risorse, ma anche di costruire avamposti commerciali lungo un continente altamente strategico per le rotte marittime che la Cina deve percorrere per portare le sue merci in Occidente.
Per avere un’idea dell’ordine di grandezza economico con il quale è stata portata avanti la politica cinese, perfettamente coerente con la logica del colonialismo 2.0 che caratterizza il nostro tempo, è molto istruttivo leggere una ricerca pubblicata dal Russian International Affairs Council (RIAC) secondo la quale il totale delle risorse investite dai cinesi in Africa aveva raggiunto la cifra di 220 miliardi di dollari alla fine del 2014, fra investimenti diretti e di portafoglio.
Nel 2017, sempre secondo la nostra ricerca, la Cina era diventata il massimo prestatore ai paesi africani con un ammontare di prestiti che sfiorava i 100 miliardi, e di conseguenza un grande partner per mezzo continente, dal Marocco, al Chad fino al Camerun. Gli investimenti cinesi hanno trasformato l’Africa in una grande fabbrica cinese che secondo alcuni osservatori, nel 2017, ha prodotto per la “madrepatria” 11 mila camion, 300 mila condizionatori, 540 mila frigoriferi, 390 mila televisioni e 1,6 milioni di tonnellate di cemento. E questi risultati sono il frutto degli appena 3,2 miliardi di investimenti del China-Africa Development Fund. Al tempo stesso la Cina negli ultimi dieci anni ha contribuito alla costruzione di oltre 100 zone industriali in Africa, il 40% delle quali sono divenute operative, alla costruzione di 5.756 km di ferrovie, 4.335 km di autostrade, nove porti (fra i quali spicca quello di Gibuti), 14 aeroporti, 34 centrali elettriche e circa 1.000 piccole centrale idroelettriche. E questo ci consente anche di capire perché l’Africa sia entrata pienamente nella visione della Belt and road initiave cinese sin dall’inizio.
E’ sicuramente vero, come scrivono i media cinesi, che “la cooperazione fra Cina e Africa è fra due fratelli”. Vero almeno quanto il fatto che esiste Babbo Natale.
Fonte: qui
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