In Italia chi si occupa di politica e di informazione generalmente non ha grandi competenze in materia di economia e finanza. Non ci sarebbe granché di cui stupirsi se la cosa non riguardasse anche diversi politici e giornalisti che ricoprono incarichi che hanno a che fare con l’economia e la finanza.
Uno dei temi che dal 2011 è al centro di un dibattito in cui regna la confusione è quello che riguarda i derivati stipulati dal Tesoro, che hanno generato esborsi miliardari negli ultimi anni. Attualmente è in corso un processo contabile nel quale la Corte dei conti contesta a Morgan Stanley (per il 70%) e a dirigenti passati e presenti del Tesoro (per il restante 30%) un danno erariale di 3,9 miliardi.
A partire dal 1994, il Tesoro ha stipulato diversi contratti derivati che non hanno svolto finalità di copertura, ossia di limitazione del rischio di tasso. In effetti non poteva essere così, dato che il Tesoro vendette swaption a Morgan Stanley. Si tratta di opzioni in base alle quali il venditore, a fronte dell’incasso di un premio, cede all’acquirente il diritto a entrare a date future in un contratto di swap (ossia di scambi di flussi di interessi a tasso fisso contro tasso variabile) a condizioni di tasso prestabilite.
In generale, mentre per chi compra l’opzione il premio pagato rappresenta la perdita massima, per chi vende la perdita può essere molto superiore all’importo del premio incassato, perfino illimitata. Morgan Stanley aveva introdotto nel contratto quadro una clausola che le consentiva di chiudere anticipatamente il derivato, contro il pagamento del suo valore di mercato da parte del Tesoro, qualora l’esposizione avesse superato determinati limiti. Clausola che la banca americana decise di esercitare sei anni fa, quando ci fu l’impennata del rischio Italia. Si tratta di clausole per nulla irrituali in questo tipo di contratti, e solitamente sono valide per entrambe le controparti.
Ciò che trovo abbastanza ridicolo, nell’atteggiamento di gran parte dei commentatori di questa vicenda e della stessa Corte dei conti, è attribuire a Morgan Stanley la responsabilità sulla gran parte delle perdite generate al Tesoro da quei derivati. Chi gestisce il debito pubblico non dovrebbe essere ignorante in materia, mentre qui si sta trattando la questione come se la controparte della banca d’affari fosse il signor Rossi “povero piccolo risparmiatore indifeso”.
Scrive Gianni Trovati sul Sole 24 Ore: “Il rialzo dei tassi ha fatto scattare la clausola, che la banca non avrebbe esercitato in caso di andamento sfavorevole delle curve: una scommessa, nei fatti, impossibile da perdere per Morgan Stanley, e da vincere per il Tesoro. Lo stesso squilibrio, ovviamente, è alla base della possibilità concessa a Morgan Stanley di decidere da sola quando uscire dai derivati”.
L’affermazione di Trovati non è corretta, a meno che non sia dimostrato che il premio per la vendita delle swaption fosse nettamente inferiore al suo valore di mercato al momento della stipulazione. Nel momento in cui si stipula un contratto di opzione, se ciò avviene a condizioni di mercato, l’unica cosa che si può affermare è che il compratore perderà al massimo il premio pagato, mentre il venditore potrebbe perdere molto di più.
Viceversa, se il premio non rispecchiava le condizioni di mercato, andrebbe capito perché, dato che in tal caso le possibilità mi sembra possano essere solo due: o chi stipulò quei contratti per conto del Tesoro era ignorante in materia, oppure non lo era, ma in questo caso il sospetto che abbia avuto qualche forma di beneficio privato penso sia legittimo.
Entrambe le ipotesi mi sembrano comunque sconcertanti.
Ultima curiosità: nel processo della Corte dei conti non è stato finora coinvolto il direttore generale del Tesoro dell’epoca. Forse è perché si tratta di Mario Draghi.
MATTEO CORSINI
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