Le ripercussioni globali delle prossime elezioni in Alabama
Cosa succederebbe se George Washington e Thomas Jefferson si presentassero candidati alle presidenziali del 2020? Come reagirebbero l’opinione pubblica, i media e i mercati? Probabilmente con orrore e sgomento. I cercatori di fango professionisti, che in America sono legioni e hanno studi specializzati con grandi fondi a disposizione, avrebbero gioco facile.
Entrambi ricchi e molto attaccati alle loro proprietà, i due candidati verrebbero additati come portatori di innumerevoli potenziali conflitti d’interesse. Washington verrebbe attaccato senza sosta per i suoi 317 schiavi e Jefferson per i suoi 650. Verrebbe portato in televisione lo schiavo di 83 anni e malato che Washington continua a fare lavorare dall’alba al tramonto. Uscirebbero dai cassetti le lettere in cui Washington scrive che “ci sono pochi Negri che lavorano se non li si sorveglia costantemente” e quella in cui si congratula con il suo fattore per avere usato la frusta con uno schiavo pigro e lo esorta ad essere ancora più duro. Saturday Night Live spernacchierebbe il candidato per il suo unico dente rimasto e per la sua dentiera confezionata con denti di schiavi.
Quanto a Jefferson, oltre alle dichiarazioni sull’intelligenza inferiore degli schiavi, vedremmo sui giornali e in televisione, a tutte le ore del giorno, la foto del ragazzino di 10 anni al lavoro nella sua piantagione e quella dello schiavo diciassettenne malato frustato tre volte al giorno. Ma il piatto forte sarebbero le interviste a Sally Hemings, la schiava messa incinta da Jefferson a 16 anni, quando lui ne aveva 46, dopo due anni di relazione.
L’America è da mezzo secolo in piena guerra civile culturale ma non bisogna mai dimenticare che in questo conflitto i temi civili si intrecciano con quelli politici, che in realtà sono spesso dominanti. Il caso Weinstein, al di là del merito specifico della vicenda, è l’attacco alla Hollywood-Babilonia antitrumpiana e segue di poche settimane lo scandalo Uber, additata come simbolo di una Silicon Valley maschilista, corrotta e anch’essa antitrumpiana. Il caso Moore è l’attacco simmetrico, potenzialmente devastante, al Sud gotico e trumpiano.
Moore è il candidato repubblicano a senatore dell’Alabama. Le elezioni sono il 12 dicembre. L’Alabama è uno stato ultraconservatore che è stato democratico e segregazionista fino agli anni Sessanta. Nel partito democratico, fino ad allora, avevano convissuto il Nord liberal e il Sud suprematista. Quando il democratico Kennedy mandò una divisione dell’esercito in Alabama per imporre al democratico governatore Wallace il rispetto dei diritti civili dei neri il Sud abbandonò la coalizione rooseveltiana del New Deal e divenne repubblicano.
Oggi, a essere spaccati, non sono i democratici ma i repubblicani e il Sud è a serio rischio di tornare democratico. Moore è appoggiato da Bannon, che vuole liquidare l’establishment repubblicano e sostituirlo con nazionalisti economici e populisti mentre Trump, prudentemente, sta a guardare. Bannon stava cominciando a vincere tutte le primarie con i suoi uomini e anche Moore era proiettato verso un largo successo quando alcune donne si sono affacciate a denunciare abusi da lui commessi negli anni Ottanta. In queste ore un robot sta telefonando in tutte le case dell’Alabama per sollecitare la denuncia di altri eventuali abusi commessi da Moore, il quale nega ogni addebito. Il danno in ogni caso è fatto. O Moore si ritirerà o verrà comunque battuto da un democratico.
Quello che è interessante è che il violento attacco contro Moore vede in prima linea non i democratici ma i repubblicani di establishment, disposti a perdere il senato (ed eventualmente la camera) pur di bloccare Bannon. In questo c’è una logica. Se non si blocca il movimento di Bannon sul nascere, gran parte dell’establishment repubblicano verrà spazzato via nelle prossime primarie. Perdere la maggioranza al senato è un prezzo sopportabile se l’alternativa è essere mandati a casa per sempre.
La bruciante sconfitta in Virginia e New Jersey la settimana scorsa e la possibilità di perdere anche l’Alabama stanno facendo miracoli nell’aiutare i repubblicani del Congresso, incluse le primedonne del senato, a mettere a fuoco e ad accelerare al massimo la riforma fiscale. Nelle prossime ore la camera approverà in aula la sua versione finale. Il testo su cui il senato sta lavorando include anche un primo pezzo di riforma sanitaria che fa risparmiare soldi al governo e riapre le speranze per una riforma più ampia nel corso del 2018.
Se anche ci fosse un rinvio al 2019 dell’aliquota corporate al 20 (e non è detto che ci sia) è bene ricordare che:
1) L’aliquota sembra confermata al 20, senza i temuti ritocchi al rialzo che si andavano profilando;
2) Il ribasso sarà definitivo e non, come si stava cominciando a pensare, limitato a 10 anni;
3) Gli investimenti potranno essere spesati integralmente per tutti i prossimi 5 anni;
4) La deducibilità degli interessi passivi sarà limitata al 30 per cento dell’Ebitda, ma con i tassi così bassi ci saranno ripercussioni solo per le imprese molto indebitate. Al margine, verranno disincentivati i buy-back a leva, il che, strategicamente, è una buona, non una cattiva notizia.
La maggioranza è risicatissima, ma non ci sono oppositori interni particolarmente decisi. Il senatore Johnson sta puntando i piedi e fa notare come le grandi imprese siano state aiutate più delle piccole, ma è un uomo ragionevole e alla fine si accoderà. Dopo Thanksgiving le due camere lavoreranno per riconciliare i due testi. Il testo del senato prevarrà e Rayan ha già dato l’assenso della camera ad alcuni punti in cui il senato si differenzia dalla camera. Per fine anno o inizio 2018 il tutto potrebbe essere sul tavolo di Trump, che approverà sicuramente senza rinviare il testo al congresso.
Nei giorni scorsi i mercati hanno provato a gettare le basi per una correzione significativa. Oltre ai dubbi sulla riforma fiscale c’è stato il venir meno delle sorprese positive su crescita e inflazione e il sopraggiungere di qualche piccola sorpresa negativa su questi due fronti. In Europa la correzione è stata più forte per effetto del dollaro, sempre di più elemento prociclico. Si stavano toccando livelli di volatilità e di prezzo che avrebbero potuto facilmente produrre altra volatilità e altre cadute ma la spirale è stata spezzata dall’accelerazione della riforma fiscale e dai suoi contenuti, nell’ultima versione, aggressivamente pro business.
La limitata correzione cui abbiamo assistito è avvenuta con volumi ridotti. Pochi i venditori, timorosi di perdere l’ultima parte del grande rialzo, e pochi i compratori, timorosi di restare incastrati in una correzione più ampia o addirittura in un bear market in gestazione. In tutti, come si vede, è stata presente la sensazione che il grande rialzo sia nella sua fase finale. Il che ci dice che, in fondo, tutta questa complacency non c’è e che una piccola strizzata verso l’alto, con la riforma fiscale in dirittura d’arrivo, è ancora possibile. Ci dice, ancora di più, che per quanto i mercati siano carichi, sazi e stanchi, non per questo siamo ancora pronti per un bear market.
Fonte: qui
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