Non è tanto la questione dei 6 centesimi al litro, l'accisa sul gasolio introdotta da Macron per cominciare a finanziare la cosiddetta "transition énérgertique" (così come gli suggeriva l'anno scorso il suo ministro, poi dimissionario, il super-ambientalista Nicolas Hulot) che ha fatto da detonatore alla mezza insurrezione dei "Gilet jaunes".
E non si tratta neanche del rinvio (al 2035 ad andar bene, dieci anni dopo la "dead line" fissata dalla legge sulla transizione energetica voluta all'epoca dalla ministra dell'Ambiente Ségolène Royale sull'onda della Cop 21 di Parigi) della chiusura di un buon numero di centrali nucleari che pure dovrebbero essere l'unica alternativa tecnologica, magari politicamente non accettabile (eolico e fotovoltaico essendo ancora fonti economicamente poco convenienti), all'inquinamento da combustibili fossili se davvero si vuole mettere la salute del pianeta al primo posto, Make the planet great again, per dirla con lo slogan con cui il presidente francese ha provato a rintuzzare la vecchia politica eco-negazionista del vecchio Trump.
La verità è che, dopo una settimana di blocchi stradali in tutta la Francia e dopo la seconda discesa a Parigi, sabato 24 novembre, di una nutrita colonna di "Gilet jaunes" al grido di "Macron démission", segno che il movimento spontaneo dei "poujadisti con il Suv" (definizione di Giuliano Ferrara sul Foglio) è stato in qualche modo contaminato a destra (dai lepenisti) e a sinistra (dai melenchonisti); la verità è che la doppia partita della cosiddetta "fiscalità verde", l'uso della leva tributaria in funzione eco-ambientalista, e della connessa politica energetica è diventata quella che qui in Francia si definisce con la parola italiana "imbroglio", diciamo un rompicapo, un puzzle politico da cui il pur abile Macron fa fatica a uscire.
Lo show-down si vedrà martedì 27 novembre, nel momento in cui - dopo mesi di rinvii e di perdite di tempo - l'Eliseo presenterà la Ppe, Programmation pluriannelle de l'energie, un primo progetto, un "feuille de route", di politica energetica che avrà, si capisce, conseguenze dirette sulla legge di bilancio e sul budget dello Stato dal momento che ridurre le emissioni di Co2 e sviluppare le cosiddette fonti alternative (ai combustibili fossili) non è operazione economicamente e politicamente indolore come dimostrano appunto le agitazioni di queste settimane.
La prova, comunque, è anche nelle dimissioni, ad agosto scorso, del ministro più popolare della compagine macroniana, quel Nicolas Hulot citato prima, ambientalista impegnatissimo, che se n'è andato sbattendo la porta (con un annuncio ai microfoni di FranceInfo prima ancora che all'Eliseo, quasi uno sgarbo istituzionale mai chiarito neanche nella sua prima intervista tv giovedì 22 novembre a France2 ).
Il retroscena di quelle dimissioni, oltre alla "carbon tax", sarebbe stato proprio un durissimo scontro con il presidente sul piano di denuclearizzazione della Francia, vale a dire la chiusura e lo smantellamento progressivo del parco centrali (ce ne sono 58, molte vecchissime, costruite ai tempi di De Gaulle e Pompidou, oltre 40 anni fa, e alcune anche a ridosso del confine italiano) come previsto dalla legge sulla transizione energetica di madame Royale.
Tutto ciò, non dimentichiamolo, sullo sfondo delle prossime elezioni europee di maggio dove Macron si gioca il futuro del suo movimento che potrebbe essere insidiato proprio dal partito degli ecologisti, quei Verdi, che hanno dimostrato una straordinaria vitalità nelle ultime consultazioni regionali in Germania e che - come risulta all'autore di questo blog - avrebbero cominciato a corteggiare per una candidatura i due ex ministri, la Royale e Hulot, considerati i due politici più autenticamente ambientalisti, sufficientemente popolari e in grado di mettere in difficoltà i macronisti denunciando la doppiezza, il solito "en même temps" della politica energetica del presidente, attento più all'equilibrio di bilancio delle varie "carbon tax" ("Una visione budgettaria della fiscalità" lo ha rimbrottato Le Monde) che ai suoi reali effetti ecologici.
La prova? Ce ne sono ben due. La prima è la sua resistenza a rivedere le accise su benzina e gasolio che hanno scatenato la jacquerie gialla di chi non è disposto a finanziare con le proprie tasse la transizione energetica, politiche ambientaliste considerate molto "ecoló-bobó", roba da parigini in bicicletta sui quais della Senna chiusi al traffico dalla sindaca Anna Hidalgo (detestata dagli automobilisti che arrivano dalla cintura parigina e ora coccolata, significativamente, dagli ecologisti che la vorrebbero, anche lei, in lista per le Europee).
La seconda: la disponibilità ad accettare i veti di Edf, la potentissima Enel francese (definita sempre "uno Stato nello Stato" come la nostra Eni ai tempi di Enrico Mattei) che, ovviamente, non vuole chiudere le sue centrali se non in cambio di rimborsi miliardari a carico del suo azionista principale, lo Stato.
Secondo quanto risulta ad Huffpost, l'ipotesi dello smantellamento del parco nucleare è già nel dossier Ppe, la Programmation pluriannuelle de l'énergie, il piano energetico nazionale annunciato per il 27 novembre prossimo. Se non proprio il numero esatto delle centrali da smantellare, il piano di Macron indicherà "un chemin, un objectif politique", come riconosce timidamente il portavoce dell'Eliseo, insomma una strategia per il prossimo decennio, con l'obiettivo di evitare la trappola degli indennizzi.
L'opzione più radicale, cioè lo smantellamento dei siti atomici costerebbe, infatti, più di 200 miliardi di euro. Il mantenimento di quelli esistenti con l'ormai indispensabile "messa a norma", il cosiddetto "carenage", insieme con la realizzazione di un enorme deposito per le scorie radioattive nella regione della Marna, a nord di Parigi (proprio là dove morirono centinaia di migliaia di soldati francesi durante la prima guerra mondiale) fors'anche il doppio, 400 miliardi di euro.
I conti li ha fatti, in questi giorni, un "think tank" indipendente e di assoluto prestigio come l'Institut Montaigne. Lo studio, pubblicato in sintesi sul suo sito (www.institutmontaigne.org), dimostra che l'uscita dal nucleare avrebbe il costo proibitivo di 217 miliardi di euro (179 per la riconversione delle centrali alla produzione elettrica da energie rinnovabili, 25miliardi per indennizzare l'Edf per gli investimenti fatti finora compresa la centrale in costruzione di Flammanville, in Bretagna, 13 miliardi per ammodernare la rete distributiva), senza considerare che la produzione elettrica da gas naturale o da energie rinnovabili (sole, vento, maree, etc) sarebbe assai meno competitiva dell'atomo e quindi destinata a produrre maggiori costi per l'Edf e maggiori diseconomie complessive per il sistema Francia.
Insomma un disastro. Anche solo a investire dieci miliardi l'anno- si legge nel paper dell'Institut Montaigne - ci vorrebbero almeno vent'anni, quattro mandati presidenziali, per portare a termine l'operazione "Nuclear-Exit".
Ancora più cara la scelta di rimpiazzare le centrali più vecchie, chiudendo quelle, diciamo, "irrecuperabili" (come l'impianto di Flesseinheim, in Alsazia, al confine con la Germania su cui insiste da anni la Cancelliera Merkel) e di passare ad un sistema misto (nucleare + gas naturale + energie rinnovabili) se non altro per rispettare le regole della solita legge sulla "transition énergétique".
Insomma, da qualsiasi parte lo si affronti, il dossier nucleare è un rebus senza soluzione, un rompicapo, un "imbroglio". Senza contare le partite già aperte. Vale a dire, la ricapitalizzazione di Edf (4miliardi di euro) il cui debito è stato appena consolidato nel bilancio dello Stato superando tutti i veti di Bruxelles (che poteva far scattare la tagliola dell'aiuto di Stato) solo perché la Francia è la Francia; il salvataggio di Areva, la società che costruisce le centrali, anch'essa sommersa dai debiti (3,3 miliardi di euro) e sul punto di fallire; il completamento delle centrali di Flammanville (bloccata per mesi dopo la scoperta di componenti difettose fornite da Creusot Forge, azienda controllata da Areva) e di Hinkley Point in Gran Bretagna.
Per rendersi conto delle grandezze economiche in gioco, basti dire che il potente patron di Edf, Jean-Bernard Levy, si è detto pronto a chiudere Fessenheim a patto, naturalmente, di essere indennizzato per la perdita di una centrale che produce ogni anno un margine lordo (Ebitda) di 200milioni di euro, quanto mai utili per un gruppo indebitatissimo che ha visto i suoi profitti crollare negli ultimi anni per il calo del prezzo del kilowattora a livello mondiale.
Già al momento dell'approvazione della legge Royale, l'Edf aveva fatto garbatamente sapere a Bercy, sede del ministero dell'Economia, all'epoca occupato da Macron, che solo il dimezzamento della produzione elettrica da nucleare sarebbe costato al colosso energetico nazionale 5,7 miliardi di minori utili, l'11% del fatturato complessivo e che quindi qualcuno, a Bercy o all'Eliseo, avrebbe dovuto provvedervi.
Insomma, il dossier Energia&Ambiente in un Paese che s'è fatto sempre vanto della sua indipendenza energetica (grazie al nucleare) si è improvvisamente complicato con l'arrivo sulla scena dei Gilet Gialli. Che, per di più, piacciono all'opinione pubblica (il 60% dei consensi) secondo un sondaggio Odoxa "sparato" in prima pagina sul Figaro. E non si sa se basteranno i 500milioni di euro di contributi promessi da Macron (per chi percorre molti km. e per chi vuole cambiare la vecchia "bagnole", la vecchia auto inquinante) a calmarli.
Fonte: qui
Ecco perché i gilet gialli infiammano la Francia su gasolio e benzina.
di Alberto Clò
Le violente proteste dei ‘gilet gialli’ francesi contro l’aumento dei prezzi dei carburanti deciso dal governo di Edouard Philippe dicono molto sullo scarto nella popolazione francese (ma non solo) tra il dichiararsi contro i cambiamenti climatici ed accettarne le misure per combatterli. Le proteste sono scaturite nei territori agricoli ma a dire dei sondaggi godono del sostegno del 74% della popolazione. Eppure, il gasolio aumenterà di (appena) 6,5 cent €/lt e la benzina di 2,9 cent €/lt portando il prezzo medio a circa 1,53 €/lt. Prezzi comunque inferiori, e di non poco, a quelli medi italiani: 1,63 €/lt per la benzina e 1,55 €/lt per il gasolio (dati al 15 novembre, Staffetta Quotidiana).
A fine agosto il Ministro francese per la ‘Transizione ecologica e solidale’ si dimise perché non aveva più intenzione di ‘mentire a sé stesso’, non essendo riuscito ad adottare misure significative, a partire dal rinvio della riduzione del nucleare nella generazione elettrica. Fu sostituito da Francois de Rugy, Presidente del Parlamento francese e a lungo membro del partito ‘Europe ècologie – Les Verts’, moderato ma comunque desideroso di agire. Da qui, la decisione del governo, col sostegno del Presidente Emmanuel Macron, di aumentare la carbon tax, denominata, ‘Contribution Climat Energie’ (CCE), nella complessiva ‘Taxe interieure de consommation sur le produit energetique’ (TICPE). La tassa sul carbonio fu introdotta nel 2014 – Presidente Francois Hollande, Ministro dell’ambiente Segolene Royal – e da allora è aumentata di oltre 6 volte, da 7 a 44,6 €/tonn CO2, con la previsione di portarla a 55 € nel 2019 sino a 100 nel 2030.
Attualmente la TICPE è pari a 0,94 euro/litro (di cui fa parte la CCE per il 63%) su un prezzo finale medio intorno a 1,50 €/lt Prezzo grosso modo simile tra benzina e gasolio, per la decisione del governo francese di ridurre gli sgravi fiscali a favore delle auto diesel, motivato dai loro presunti danni ambientali e dal prossimo avvento dell’auto elettrica. Motivazioni entrambe inconsistenti.
Il gasolio in Francia aumenterà di (appena) 6,5 cent €/lt e la benzina di 2,9 cent €/lt, portando il prezzo medio a circa 1,53 €/lt: prezzi comunque di non poco inferiori a quelli medi italiani.
Cosa insegna la protesta dei gilets jaunes? Più cose. Primo: “la transizione energetica come ogni altra rivoluzione, perché di questo si tratta – scrivevo oltre un anno fa nel mio ‘Energia e Clima’ (pag. 32) – attraverserà in modo diseguale le varie componenti economico-sociali interne ad ogni paese […]. Si avranno vincitori e vinti nella distribuzione dei costi e dei benefici – tra imprese, industrie, lavoratori, consumatori, contribuenti – con tensioni politiche e sociali”. Come va accadendo e sempre più accadrà.
Secondo: la benzina o il gasolio sono un bene essenziale per una larga parte della popolazione, specie quella pendolare che ogni giorni deve andare a lavorare o studiare. In Italia ammonta a 29 milioni di persone. La maggior parte usa l’automobile. Questo accade anche in Francia, nonostante la maggior efficienza del suo sistema ferroviario. Da qui la rabbia dei ‘rurali contro i parigini con il metrò sotto casa’. I cittadini/consumatori non fanno poi solo il pieno, ma usano l’elettricità o il metano, i cui prezzi in Italia stanno diventando sempre più insopportabili per milioni di famiglie.
L’economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell’ecologia è un’economia percepita come punitiva e perciò stesso respinta.
Terzo: l’accettabilità sociale della transizione energetica diminuisce con l’intensificarsi delle misure per realizzarla. Non solo prezzi, ma anche restrizioni, proibizioni, sanzioni. Sarà allora interessante vedere, ad esempio, come reagiranno i 2,2 milioni di parigini al Piano ambientale approvato lo scorso anno dal loro sindaco Anne Hidalgo dal suggestivo nome ‘Paris change d’ère. Vers la neutralité carbone en 2050’ che mira a ridurre le emissioni clima-alteranti del 50% al 2030 e dell’80% al 2050 in larga parte con una miriade di misure coercitive.
Ne riportiamo le principali:
- limitare l’aumento degli abitanti nel 2030 a non più di 160.000 (come?);
- dimezzare le 600 mila vetture in circolazione (chi e come deciderà?), che dovranno avere dal 2030 almeno 1,8 (sic!) occupanti (idem);
- aumentare in ogni modo i ‘costi di utilizzazione delle autovetture’;
- eliminare i parcheggi;
- incoraggiare l’andare a piedi o in bici;
- puntare a un’“alimentazione meno carnosa” col divieto di distribuire la carne due giorni la settimana;
- “orientare più massicciamente le scelte dei parigini verso regimi alimentari plus durables” (?);
- bloccare la circolazione nei week-end organizzando grandi feste popolari per le strade.
Il tutto, mirando a “conquistare i cuori e gli spiriti” dei parigini e a “nutrirne l’immaginario […] mutualizzando gli acquisti o sincronizzando le decisioni”. Non so quanti dei circa 34 milioni di turisti che visitano annualmente Parigi o gli stessi parigini gradiranno queste restrizioni dei gradi di libertà individuale. Rivoluzionare dall’alto economie e modi di vivere richiederebbe rigidi sistemi di pianificazione scarsamente accettabili dalle società moderne. L’economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell’ecologia è un’economia percepita come punitiva e perciò stesso respinta. I gilets jaunes anche questo insegnano.
Tempi duri per la Francia in Africa
La Francia di Emmanuel Macron in Africa è circondata, minacciata da Stati Uniti, Cina, Russia. Le solide fondamenta della FranceAfrique si stanno trasformando in pantano
DI FULVIO BELTRAMI
I ‘possedimenti d’oltre mare’, le ex colonie della Francia in Africa, servono all’economia della Madre Patria (valgono il 42% dell’economia francese), quindi, il controllo neocoloniale delle risorse naturali, della finanza, dell’economia, della politica, non è terminato con le varie indipendenze acquisite negli anni Sessanta. La Cellula Africana dell’Eliseo, nota come FranceAfrique, dopo aver constatato l’impossibilità militare di mantenere il controllo delle colonie (la guerra d’Algeria è la più drammatica prova di questa impossibilità), ha lavorato incessantemente per mantenere il controllo indiretto tramite Capi di Stato e regimi di comodo. Per quarant’anni la Francia ha fatto il bel e cattivo tempo nei Paesi francofoni africani, decidendo chi accedeva alla Presidenza e quali politiche economiche dovevano essere promesse. Le relazioni Francia-Africa sono state caratterizzate, per quasi mezzo secolo, dal paternalismo, ‘amicizie’ con dittatori psicopatici, sfruttamento di minerali e idrocarburi ai danni dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, colpi di Stato, trattative segrete, finanziamento di ribellioni e guerre civili, controllo dei prezzi mondiali di importanti prodotti di esportazione, tra cui il cacao.
I primi quarant’anni di FranceAfrique sono stati caratterizzati da una brutalità che ricordava molto da vicino quella nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, o Grande Guerra Patriottica come è denominata dai russi. Impresentabili e sanguinari dittatori erano i benvenuti all’Eliseo in quanto garanti degli interessi francesi. Mobutu Sese Seko nello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo), Jean-Bedel Bokassa nella Repubblica Centrafricana, Idri Deby Itno nel Ciad, Omar Bongo Odinga in Gabon, Juvenal Habyarimana nel Rwanda.
Negli anni Novanta si è assistito al primo ‘attacco’ all’‘Impero francese in Africa’, attuato da Stati Uniti e Gran Bretagna.
Tutto inizia con i tre rivoluzionari africani: Yoweri Kaguta Museveni Uganda, Paul Kagame in Rwanda, Meles Zenawi in Etiopia. Uomini nuovi sulla scena africana che propongono una politica mista tra rigore marxista e libero mercato. Il primo a prendere il potere è Museveni, nel 1987, seguito da Melezev, nel 1991. Paul Kagame sarà l’ultimo ad arrivare alla Presidenza, dopo che i francesi, nel tentativo di mantenere il Rwanda francofono, idearono e permisero il genocidio.
Dopo il Rwanda cade lo Zaire. La giovane Repubblica Democratica del Congo diventa teatro di due guerre pan-africane (dal 96 al ‘97, e dal 1998 al 2003) e tre grandi ribellioni. Una serie di guerre civili che continua tutt’ora, coinvolgendo i Paesi vicini: Burundi e Rwanda, il primo in mano ad un regime razial-nazista HutuPower, il secondo costantemente minacciato di invasioni delle FDLR, il gruppo terroristico ruandese creato nel 2000, da Parigi, raggruppando tutte le forze HutuPower che avevano scatenato l’Olocausto nel 1994. È proprio il Congo che ferma la guerra per procura tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. L’impossibilità di vittoria dei fronti contrapposti fa comprendere a Washington e Londra la necessità di accordi con Parigi per spartirsi le risorse naturali africane.
Il secondo attacco all’Impero Francese proviene dalla Libia di Gheddafi. Presso la Banca Centrale di Tripoli erano stati accumulati 143 tonnellate d’oro e una enorme quantità di argento che dovevano servire alla creazione di una moneta panafricana basata sul dinaro libico che potesse rappresentare una valida alternativa al Franco CFA dei Paesi africani francofoni. Alla scoperta di questo piano, il Presidente Nicolas Sarkozy sostiene una finta ribellione e attacca militarmente la Libia per interrompere il processo avviato da Gheddafi di indipendenza finanziaria ed economica delle sue ‘colonie’ africane. Ora la Libia, Paese economicamente avanzato sotto il Colonnello, è diventato un inferno, dove decine di milizie si stanno scontrando, ponendolo in una situazione di caos somalo che durerà per decenni.
La caduta della Libia ha aperto le porte per una controffensiva francese in Africa. Prima si creano pericolosi gruppi islamici legati ad Al Qaeda, Daesh e Arabia Saudita, poi si invadono i Paesi con il pretesto di combattere il terrorismo internazionale. Mali e Repubblica Centrafricana diventano le vittime più esemplari. In questa ‘opera’, Parigi associa Washington, che ora inizia a dar segni di stanchezza.
Constatando che la lotta contro un fantomatico terrorismo internazionale nel Sahara favorisce solo la Francia, ora il Presidente Donald Trump sta progressivamente ritirando le sue truppe dal fronte sahariano, lasciando il compito di controllo del territorio ai soldati francesi.
Per tentare di contro-bilanciare la perdita dell’alleato e condividere le spese dello sforzo bellico, la Francia ha convinto la Germania all’avventura d’oltre mare. Il primo contingente di soldati tedeschi giunge in Niger per partecipare alla lotta internazionale contro il terrorismo, ovvero dividersi le risorse naturali della regione con la Francia.
La terza minaccia è rappresentata dall’espansionismo economico della Cina. Una potenza troppo forte per tentare colpi di mano diretti nei Paesi francofoni ,che sono oggetto delle proposte di cooperazione economica e militare di Pechino. Difronte al peso politico internazionale e alla potenza militare della Cina, Parigi è costretta ad una politica di compromessi nel tentativo di limitare i danni e mantenere l’egemonia nella regione. Dopo Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, la FranceAfrique è costretta ad accettare un nuovo e ingombrante ospite: la Cina.
La quarta minaccia all’Impero d’Oltremare, quella più pericolosa in quanto determinata, guerrafondaia e aggressiva, è la Russia, che ritorna in Africa dopo il crollo dell’Unione Sovietica determinata a conquistare l’impero francese.
Dal 2017 al 2018 le visite di Stato della diplomazia russa in Rwanda e altri Paesi africani si sono susseguite senza sosta. Sono stati firmati decine di contratti di vendita di armi, estrazione di minerali e idrocarburi, cooperazione militare, economica, scientifica, arrivando agli studi di realizzazione delle prime centrali nucleari. Mosca ha speso milioni per aumentare la sua influenza politica e culturale in Africa. L’obiettivo è chiaro: estromettere Francia, Europa e Stati Uniti e dividere l’Africa solo con la Cina. Una divisione che si basa su alleanze politiche ed economiche e non sul neocolonialismo di stampo occidentale, quindi conveniente per molti Paesi africani.
Mosca protegge il regime di Kabila in Congo e quello di Nkurunziza in Burundi, impedendo alla Francia di attuare un cambiamento di regime più favorevole e meno pericoloso di quello cleptomane congolese e potenzialmente genocidario burundese. Ma è in Centrafrica che la Russia si è impegnata a buttare fuori i francesi, prendendo le redini del destino del martoriato Paese cascato in guerra civile permanente grazie agli intrighi internazionali di Parigi. Soldati, mercenari, imprenditori russi stanno letteralmente invadendo il Centrafrica con l’obiettivo di rafforzare un Governo loro amico e sbattere fuori i francesi.
La prima e scontata risposta di Parigi è stata quella di impedire il processo di pace russo, supportato da vari Paesi africani, e di riavviare la guerra civile utilizzando le milizie cristiane Anti Balaka nell’intento di regalare ai russi un Afghanistan in versione africana.
La seconda risposta è stata quella di minacciare il Cremlino, invitandolo a non interferire nei territori francesi d’oltre mare. La reazione russa non si è fatta attendere. La minaccia lanciata da Parigi ha fatto aumentare la guerra fredda in Africa e risvegliato l’Orso sovietico. «Dopo aver terminato la liberazione della Repubblica Centrafricana dalle mani della Francia, continueremo con una vasta operazione di liberazione dell’Africa tutta intera», ha dichiarato due settimane fa un diplomatico russo sui media africani.
Durante il recente incontro dei Capi di Stato in Francia (in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale), il Presidente Vladimir Putin avrebbe parlato chiaro al suo omonimo francese. La Francia deve mettere un termine allo sfruttamento disumano delle risorse subsahariane. Una richiesta che non può essere accettata, in quanto le colonie africane rappresentano il 42% dell’economia francese. Chiedere il ritiro della Francia dall’Africa equivale a richiedere il fallimento economico e il declassamento da potenza mondiale a Paese di secondaria importanza sul scacchiere internazionale.
La guerra fredda tra Russia e Francia in Africa è iniziata. Le modalità di questa guerra non sono al momento facilmente prevedibili, ma le conseguenze potrebbero essere enormi. La Russia ha una diplomazia e proposte economiche meno raffinate di quelle cinesi, ma si presenta ai governi africani come un potenza del Sud, ‘amica’ e determinata a mettere fine al neocolonialismo occidentale, offrendo protezione, collaborazione economica, giusti accordi commerciali, trasferimento di tecnologia, avvio della rivoluzione industriale. Questo in contemporanea con l’offensiva economica cinese nel Continente in chiave anti-occidentale.
Tempi duri per l’Europa debole, divisa e in preda all’ascesa al potere di movimenti di destra, sovranisti se non fascisti.
Dall’altra parte dell’oceano, l’America di Trump è confusa. Ha avviato un nuovo corso della sua politica estera in Africa e tende a riprendere la guerra fredda con la Francia, in quanto le risorse naturali servono all’industria americana, forse più che a quella francese. Ma gli Stati Uniti del 2018 non sono più la potenza vincitrice del ‘45, dove potenza militare si coniugava con potenza industriale e boom economico. Gli Stati Uniti del 2018 sono una potenza in declino che ha fallito il progetto di Nuovo Ordine Mondiale ideato dalla famiglia Bush, in stretta collaborazione con il capitalismo americano. Le guerre fino ad ora fatte per questo ‘mitico’ ordine mondiale hanno dissanguato le casse dello Stato: 6 mila miliardi di dollari spesi nei fronti Afghanistan, Iraq, guerre segrete o di procure in Siria, Yemen, piani eversivi in Venezuela, Nicaragua e altri Paesi. Donald Trump è in rotta di collisione con la Francia, che ha ravvivato la proposta di un esercito europeo indipendente dal Patto Atlantico: la NATO.
La Francia di Macron sembra essere un governo di fine epoca, piuttosto che un moderno governo capace di far risorgere il Grandeur Francese. Sempre più le proteste popolari interne che, in mancanza di una chiara alternativa di sinistra, stanno spostando la popolazione a favore del fascismo di Le Pen. Una Francia che deve equilibrare la potenza della Grande Germania e continua la guerra fredda mai dichiarata con l’Italia per questioni economiche e migratorie. Guerra fredda di cui teatro principale è la Libia e quello secondario il Niger.
La Francia di Emmanuel Macron è circondata in Africa. Il terreno inizia a mancare sotto i piedi. Le solide fondamenta della FranceAfrique si stanno trasformando in pantano. L’Impero francese è minacciato da Stati Uniti, Cina, Russia mentre i governi delle sue ‘colonie’ diventano sempre più aggressivi e imprevedibili. Tira aria di ribellione e sconvolgimenti epocali, Parigi potrebbe essere, per la prima volta, la vittima di un futuro da incubo, dove le sconfitte subite in Indocina e Algeria riaffiorano triplicate per porre il colpo mortale ai territori d’oltremare. Anche la risposta militare è sempre più debole, come dimostra il Centrafrica e il Mali. Ora anche la Famiglia Bongo in Gabon è in bilico, la sta tenendo in piedi il lavoro della massoneria con FranceAfrique, e altri soldati francesi sono stati inviati per difendere l’Impero. Tempi duri per la FranceAfrique.
Fonte: qui
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