«Se reggiamo la botta fino a gennaio, poi sarà tutta una discesa…», confessa un sottosegretario di fede grillina legatissimo a Luigi Di Maio. E reggere la botta, almeno secondo la versione del membro dell’esecutivo gialloverde, significa «tirare dritto». Tenere premuto l’acceleratore e fregarsene di Moody’s, di Standard and Poor’s e delle correzioni richieste da Juncker e dai commissari della Ue. Semmai occorre mettere a punto «una maggiore sinergia» fra il governo, le commissioni parlamentari e l’armata di deputati e senatori a cinquestelle che giorno dopo giorno continua a domandarsi: «Ma per quale motivo siamo qui se alla fine decidono tutto Luigi e Salvini?». Una domanda che si pongono nell’ordine Paola Nugnes, Elena Fattori, Luigi Gallo e l’irriducibile Gregorio De Falco, l’indimenticabile comandante che ordinò a Schettino di tornare a bordo. Tutti convinti che il governo del «cambiamento» stia diventando un monocolore di stampo salviniano.
Fatta questa premessa, in casa M5S il malessere è diffuso a tutti i livelli. Il vicepremier Di Maio sa di essere come quei giocatori di poker che hanno solo una mano davanti. Poi toccherà alzarsi dal tavolo, ringraziare i compagni di tavolo e correre dritti dritti a casa. Ecco, a questo scenario impietoso il capo politico del movimento nemmeno ci vuole pensare. Di Maio è consapevole di trovarsi davanti a una congiuntura «sfavorevole»: lo spread, l’Europa, le grandi opere, il decreto sicurezza, il disegno di legge sulla legittima difesa.
Ma ciò che più lo preoccupa è l’implosione del movimento, il calo nei sondaggi che si registra ogni settimana, il fatto di sentirsi dire «traditore» dai manifestanti No Tap e da quella fetta di parlamentari, come la senatrice Fattori, che ieri ha vergato un post nel quale ha messo in fila tutte le giravolte dei cinquestelle di queste settimane per poi chiosare così: «Mi avrebbero preso per folle o per lo meno mi avrebbero rincorso con torce e forconi. Ma si sa, le rane saltano solo se le butti nell’acqua bollente. Se accendi il fuoco nel pentolone e la temperatura sale piano piano…».
Ecco, dopo i puntini c’è l’implosione, la fine di un sogno targato «governo del cambiamento» che ha mobilitato l’intero mezzogiorno con percentuali bulgare e alcune pezzi di centro e di nord. La luna di miele sta per finire, è il campanello di allarme. Lo sanno a palazzo Chigi e lo sanno anche a via Veneto, dove si trova la sede del ministero dello Sviluppo economico guidato da «Luigino». Il movimento, come ha sottolineato sul Corsera sabato scorso Nando Pagnoncelli, «sembra mostrare qualche segnale di logoramento». Da qui la forza degli oppositori interni, ovvero di coloro che fin dal primo momento non hanno digerito la fusione a freddo con la Lega di Matteo Salvini e che oggi passeggiano in Transatlantico e la mettono così: «Avete visto, avevamo ragione, no? La Lega ci sta mangiando…».
La base è infuriata per l’atteggiamento della delegazione del governo sul gasdotto Tap, sul decreto fiscale e su quello sicurezza. I no Tap bruciano le bandiere del M5S e chiedono le dimissioni dei parlamentari eletti nel Salento. I no Ilva, che si aspettavano un grande luna park al posto dell’acciaieria, una sorta di Disneyland delle Puglie, sono ancora infuriati per l’accordo che Di Maio ha stipulato con Arcelor Mittal e urlano al tradimento: «Il vicepremier qui avrà solo fischi!». Un dietrofront dopo l’altro oggi i cinquestelle si ritrovano dilaniati dal correntismo. Di Maio contro Fico, Fico contro Di Maio. Con il presidente del Camera che prova a bacchettare “Luigino” quando appunto “Luigino” approva la linea salviniana. E con il vicepremier in carica che da via Veneto rassicura come può i suoi: «Tranquilli, non tradiremo mai i nostri valori». E allora perché hai detto Si al Tap?, gli obiettano. «Non ci sono alternative, non è semplice dover dire che ci sono penali per quasi 20 miliardi, ma così è».
E la stessa giravolta potrebbe ripresentarsi se nel mese di dicembre l’esecutivo dovesse cedere alle pressioni leghiste sull’alta velocità Torino-Lione, la cosiddetta Tav. «Come possono pensare di fermare le grandi opere?», si domanda un pezzo da novanta del leghismo, come il capogruppo a Montecitorio Riccardo Molinari. «Se cedessimo pure alla Tav sarebbe la fine», assicura un deputato vicino ad Alessandro Di Battista. E qui si torna alla leadership di Luigi Di Maio. Al fatto che «Luigi» e Salvini siano ormai la stessa cosa. Due facce della stessa medaglia. Con un dettaglio che sussurra a taccuini un ex dicci che ancora frequenta il palazzo: «L’esistenza politica di Di Maio è legata a doppio filo a quella di Salvini».
Ma a dicembre si potrebbe voltare pagina. In agenda è previsto il ritorno in campo di Alessandro Di Battista, il mobilitatore della masse a cinquestelle, quello che più ricorda Beppe Grillo e i suoi Vaffaday. «L’unico soggetto in grado di fare la lotta a Di Maio è Di Battista», spiega Paolo Cirino Pomicino, democristiano non pentito di rito andreottiano. Luigi versus Alessandro. Chi la spunterà? «Lo aspettiamo, la sua leadership può oscurare quella di Salvini», gioiscono in Transatlantico alcuni.
Raccontano che «Dibba» avrebbe confidato di non voler partecipare alle comunali di Roma. «Considera una diminutio tutto quello di diverso da una sua leadership», ammette chi ci ha parlato via whatsapp nelle ultime ore. Dunque, se fosse per lui preferirebbe stare ancora fuori del palazzo e spendere le sue energie per iniziative «fuori», nelle piazze che «mi aspettano». E giocarsi il tutto per tutto alle prossime politiche. I bookmakers di Montecitorio e palazzo Madama non escludono un ritorno alle urne nel 2019. Ma c’è un ma che fa tremare i polsi al subcomandante «Dibba». Se i cinquestelle dovessero continuare a perdere consenso Grillo gli chiederebbe certamente di fare il capolista alle Europee. Di Maio è avvisato.
Da Linkiesta
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