9 dicembre forconi: Cina. Arabia Saudita accetta i petro-yuan

lunedì 28 maggio 2018

Cina. Arabia Saudita accetta i petro-yuan

Pechino-Cina

Tutta questa complessa problematica sarebbe facilmente comprensibile rileggendo, e meditando, questi scarni dati  pubblicati dall’International Monetary Fund World Economic Outlook (October – 2017).

Le proiezioni al 2022 danno la Cina ad un pil ppa di 34,465 (20.54%) miliardi di Usd, gli Stati Uniti di 23,505 (14.01%), e l’India di 15,262 9.10%) Usd. Seguono Giappone con 6,163 (3.67%),  Germania (4.932%), Regno Unito 3,456 (2.06%), Francia 3,427 (2.04%), Italia 2,677 (1.60%). Russia 4.771 (2.84%) e Brasile 3,915 (2.33%).

I paesi del G7 produrranno 46,293 (27.59%) mld Usd del pil mondiale, mentre i paesi del Brics renderanno conto di 59,331 mld Usd (35.36%).

– Gli Stati Uniti non sono più la prima potenza economica mondiale, contano il 14.01% quando la Cina raggiunge il 20.54%.

– Ma assieme agli Stati Uniti tutto il sistema economico occidentale non funziona più come in passato: i paesi afferenti il G7 costituiscono il 27.59% del pil ppa mondiale contro il 35.36% dei paesi del Brics.

Dimenticate Russia, Arabia, Iran, Opec. È la Cina che fa i prezzi del petrolio.

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Volenti o nolenti si sta chiudendo il periodo in cui il dollaro americano era l’unica valuta usata per gli scambi internazionali. Questo non significa certo che lo yuan abbia soppiantato già il dollaro, ma la strada è questa.

La convivenza non sarà certo facile.

The Risks of the China-Saudi Arabia Partnership

Lead Story: China acts to make petro-yuan a reality

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«Già nel 2015 la Cina è diventata il primo importatore di greggio saudita e ha scavalcato gli Stati Uniti. Il trend si è consolidato.»

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«Nel 2017 l’Arabia Saudita, primo esportatore al mondo con una media 7 milioni di barili al giorno, ne ha venduti 1.070.000 alla Cina e soltanto 950.000 agli Usa»

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«E’ una «spinta verso Est» che rende sempre più importanti i rapporti fra i due Paesi: sono su fronti geopolitici diversi ma complementari dal punto di vista economico»

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«Per cementare gli scambi Pechino e Riad hanno deciso di lanciare contratti denominati in yuan, e ancorati all’oro, sullo Shanghai Energy Stock Exchange. I contratti in «petro-yuan» hanno debuttato il 26 marzo e i contratti futures sono stati subito trattati da giganti finanziari come Glencore e Trafigura.»

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«A maggio gli Shanghai crude oil futures sono arrivati a coprire il 12 per cento del mercato mondiale, in crescita dall’8 per cento di marzo e con un raddoppio degli scambi settimanali. Il prezzo del barile denominato in yuan ha oscillato in questi due mesi fra i 429 e 447 yuan»

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Le conseguenze non sono però solo contabili oppure economiche: potrebbero essere anche politiche, e di gran peso.

«l’Iran potrebbe aggirare le sanzioni vendendo il greggio in Asia senza usare la valuta americana»

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In una simile situazione, il peso di eventuali sanzioni imposte, per esempio, all’Iran potrebbe essere sostanzialmente ridotto, per non dire vanificato.

Si dovrebbe prendere atto come l’Occidente non abbia più la possibilità di imporre le sue scelte né con mezzi militari né con mezzi economici.

Restano aperte le strade maestre della diplomazia, questo sicuramente, ma questa via presupporrebbe una reciproca accettazione, punto nodale sul qual l’Occidente è troppo spesso andato oltre il lecito.


→ La Stampa. 2018-05-28. I petrodollari tramontano, lo yuan cinese conquista Riad

E l’Iran potrebbe aggirare le sanzioni vendendo il greggio in Asia senza usare la valuta americana.

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La Cina si avvicina all’Arabia Saudita e lancia la sfida al cuore dell’egemonia statunitense nell’economia mondiale, i petrodollari. Una svolta che potrebbe anche rendere meno efficaci le sanzioni all’Iran. Dal giugno 1974, dopo la prima crisi petrolifera, un patto di ferro siglato dall’allora presidente Richard Nixon e Re Faisal d’Arabia, ha stabilito che gli acquisti di greggio sul mercato del Golfo dovessero essere effettuati con il biglietto verde. Da quei Paesi arriva un quarto della produzione e metà delle esportazioni di petrolio al mondo e questo ha dato alla moneta di Washington un vantaggio su tutte le altre. Ma lo scorso dicembre, in un incontro fra il nuovo ministro delle Finanze saudita, Mohammed Al-Jadaan, e il governatore della Banca centrale cinese Zhou Xiaochuan, per la prima volta si è affacciato un concorrente. Pechino. 

Già nel 2015 la Cina è diventata il primo importatore di greggio saudita e ha scavalcato gli Stati Uniti. Il trend si è consolidato. Nel 2017 l’Arabia Saudita, primo esportatore al mondo con una media 7 milioni di barili al giorno, ne ha venduti 1.070.000 alla Cina e soltanto 950.000 agli Usa. La Cina, primo importatore al mondo con acquisti per 8,6 milioni di barili al giorno, ne ha comprati 1,1 milioni da Riad, scavalcata l’anno scorso dalla Russia con 1,2 milioni. E’ una «spinta verso Est» che rende sempre più importanti i rapporti fra i due Paesi: sono su fronti geopolitici diversi ma complementari dal punto di vista economico. Per cementare gli scambi Pechino e Riad hanno deciso di lanciare contratti denominati in yuan, e ancorati all’oro, sullo Shanghai Energy Stock Exchange. I contratti in «petro-yuan» hanno debuttato il 26 marzo e i contratti futures sono stati subito trattati da giganti finanziari come Glencore e Trafigura.  

E’ stato un debutto con i fuochi di artificio. A maggio gli Shanghai crude oil futures sono arrivati a coprire il 12 per cento del mercato mondiale, in crescita dall’8 per cento di marzo e con un raddoppio degli scambi settimanali. Il prezzo del barile denominato in yuan ha oscillato in questi due mesi fra i 429 e 447 yuan, con una quotazione a metà strada fra il prezzo del Brent europeo e il Wti americano, come ha notato il portale geopolitico francese Leap. Il vantaggio per la Cina è che non deve più acquistare dollari per comprare greggio mentre per l’Arabia Saudita la scelta riflette la nuova realtà del mercato, con due terzi delle esportazioni che vanno oramai verso l’Asia. La Cina è poi un partner «più accomodante» dal punto di vista politico, non chiede rispetto dei diritti umani o riforme in senso liberale dell’economia. Ed è per questo che il Fondo sovrano China Investment Corporation è visto come favorito per l’acquisto del 5 per cento della compagnia petrolifera saudita, l’Aramco, un affare da 100 miliardi. 

Ma il boom dei petro-yuan è legato anche alle nuove sanzioni americane all’Iran. Già nel 2012, all’inizio del nuovo round di restrizioni durate fino all’accordo sul nucleare del 2015, Pechino aveva cominciato a comprare greggio iraniano in yuan. Ora gli scambi che potrebbero arrivare all’equivalente di 30-40 miliardi all’anno perché Teheran cercherà di sostituire i mercati europei con quello cinese, sempre più assetato, tanto che nel primi mesi del 2018 le importazioni hanno superato i 9 milioni di barili al giorno. E’ probabile quindi che l’esperimento dei petro-yuan sia esteso all’Iran, in modo da aggirare le sanzioni americane, che si applicano ai contratti denominati in dollari. Questo spiega l’effervescenza della Borsa petrolifera di Shanghai, partita con «un rombo di tuono», come ha commentato l’agenzia broker di Singapore Oanda. Shanghai potrebbe presto rivaleggiare «con i due mercati di riferimento» per il greggio, il Brent a Londra e il Wti americano. E il re petrodollaro rischia di perdere lo scettro. 

Fonte: qui

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