Referendum Canton Ticino: quali conseguenze per i lavoratori italiani?
Il Referendum nel Canton Ticino ha dato come esito il “Sì” e saranno quindi poste delle limitazioni per l’assunzione di lavoratori italiani. Vediamo le conseguenze della decisione.
Il Referendum Canton Ticino ha dato come esito il “Sì”, che ha ottenuto il 58% delle preferenze. Il referendum che si chiama “Prima i nostri” avrà delle conseguenze per i lavoratori italiani, specialmente i lavoratori frontalieri.
Lavorare al Canton Ticino, ha sempre attratto gli italiani per i suoi stipendi. Dopo la decisione presa con il referendum, la situazione potrebbe cambiare e le limitazioni poste potrebbero penalizzare i lavoratori italiani.
Il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha subito chiarito le problematiche che sono subentrate con la votazione. Vediamo insieme le conseguenze che questa decisione avrà sui lavoratori italiani, in particolar modo per i lavoratori frontalieri.
Referendum Canton Ticino: cosa cambia con la vittoria del Referendum
La popolazione svizzera ha deciso che dovranno essere posti dei limiti alla migrazione giornaliera dei lavoratori italiani. Ogni giorno si spostano dall’Italia al Canton Ticino circa 60 mila persone, per poi tornare in Italia dopo la giornata lavorativa. La Svizzera ha deciso di fermare questo esodo giornaliero.
Il Referendum che si è appena svolto è stato promosso dal partito di destra Udc e appoggiato dalla Lega dei Ticinesi. La decisione è quella di preferire le persone che vivono nel Cantone al momento dell’assunzione e di avere delle regole che diano la preminenza ai lavoratori qualificati che vivono sul territorio.
Da tempo il Cantone del Ticino cercava di porre dei limiti allo spostamento di lavoratori sul suo territorio. L’iniziativa “Prima i nostri” prima di essere approvata come modifica costituzionale, deve essere però discussa dall’Assemblea federale di Berna. Sarà compito dell’Assemblea decretare se la proposta è conforme al diritto nazionale e farla proseguire nel suo iter.
Referendum Canto Ticino: cosa cambia per i lavoratori italiani?
Nel caso in cui l’Assemblea federale di Berna dovesse approvare la proposta si attueranno delle restrizioni alla libera circolazione delle persone.
Verranno fissati dei limiti ai lavoratori che giornalmente potranno entrare ed uscire dai confini della Svizzera. Inoltre, saranno stabiliti dei principi di base. Saranno preferiti nei posti di lavoro i candidati residenti nel Canton Ticino.
Il risultato del referendum in Canton Ticino ha scatenato diverse reazioni da parte italiana.
Cosa cambia in Italia?
Se c’è una regione che ha un problema di  frontalierato questa è la Lombardia. Se c’è un territorio che senza  questo sfogo vedrebbe drammaticamente aumentare i propri disoccupati  sono le province di Como e Varese che sono anche le zone in cui la Lega è  più forte.
Proprio quella Lega che ha stretti rapporti politici con i  promotori del referendum che l’altro giorno ha stabilito che i posti di  lavoro andranno offerti prima agli svizzeri e poi agli altri, a quei  60mila frontalieri che quotidianamente, ogni mattina, varcano i confini  di Chiasso, Bizzarone e via discorrendo.
La notizia ha già scatenato l’ira dei  politici, i quali, dopo essersi informati su chi siano i frontalieri e  di che cosa si parla, hanno provveduto a rilasciare dichiarazioni di  fuoco, arrivando a minacciare una crisi tra Berna e Bruxelles in nome  della libera circolazione.
Tutto questo, però, sembra un po’ troppo  precoce, e forse anche un po’ troppo sopra le righe, soprattutto quando  l’indignazione scatta a intermittenza e quando si constata che le  migliaia di italiani che lavorano all’estero sono un problema solo se  c’è di mezzo quel nazionalismo che per noi coincide principalmente con  la nazionale di calcio o con gli interessi economici.
L’impressione, come si diceva, è che il  referendum per ora sia destinato a lasciare le cose come stanno. Ma  senza farsi troppe illusioni e senza pensare che non vi siano pericoli.  Perché non dobbiamo preoccuparci?
Perché in Svizzera, e in Ticino per la  precisione, la disoccupazione è intorno al 3%, cioè non esiste, essendo  questo il limite sotto il quale si considera che il mercato assorbe  praticamente tutti gli “indigeni” che richiedano un lavoro.
Inoltre,  perché il referendum non ha un’applicabilità immediata, dovendo passare  prima da Berna che prima ne verificherà la compatibilità con le norme  confederali e poi con gli accordi internazionali.
Infine, perché non  riguarda chi già lavora in Svizzera e che non rischia di perdere il  posto se non per le solite ragioni, e cioè per ragioni disciplinari, per  scelta insindacabile del datore di lavoro, per colpe gravi, per essersi  rifiutato di farsi tagliare il salario al di sotto del minimo e via  elencando.
E allora perché tutto questo can-can?
In  fondo il referendum ha solo sancito un principio: formalmente il  principio della chiusura di un Cantone della Confederazione Elvetica  rispetto al criterio della libertà del mercato del lavoro, in realtà  l’assai meno tangibile valore che il Ticino sa tenere testa all’Europa e  non si fa intimorire dal “demonio europeo”!
Insomma, si è di fronte a  una banalissima campagna mediatica?
Neanche questo è del tutto vero, ma  certo non si può dire che il voto sia di quelli destinati a spostare da  subito grandi numeri sul mercato del lavoro.
Al contrario qualche riflessione ci viene suggerita da una serie di  coincidenze e circostanze che a noi paiono più inquietanti.
Anzitutto:  perché la Svizzera si sta chiudendo di fronte al mondo? Perché, ci  sembra evidente, i nostri vicini non fanno altro che adeguarsi a un  andazzo che tenta anche noi italiani, e che è divenuto una costante  nell’Europa odierna.
Per la civile Europa, infatti, l’altro non è più un  essere umano, uno uguale a noi, che cerca di stare meglio, che si muove  per trovare un luogo ove costruirsi un futuro più dignitoso, ma è una  minaccia, un possibile concorrente rispetto a un benessere che sentiamo  sempre più fragile, sempre meno garantito.
Non è un caso, d’altronde, che i ticinesi  si siano dichiarati contrari ai frontalieri proprio quando aumentano le  richieste di permessi di lavoro per profili occupazionali medio-alti:  non è l’arrivo di muratori o operai a preoccupare i nostri vicini, ma  quello dei tecnici, degli ingegneri, degli informatici, degli  specialisti del sistema creditizio, degli insegnanti. Perché questo  significa meno posti di lavoro laddove la fatica intellettuale  sostituisce quella fisica, cioè nel regno del benessere. Ma significa  anche chiedersi se davvero le scuole svizzere sono al livello di quelle  europee o non abbisognano di qualche ritocco. Se i medici e gli  infermieri autoctoni sono davvero all’altezza del compito che è loro  richiesto o se non subiscano la concorrenza di personale meglio formato e  più disponibile, come quello italiano. Cioè, significa rimettersi in  discussione.
Allo stesso modo, però, anche noi ci  chiudiamo e siamo preoccupati quando vediamo arrivare dalle sponde del  Mediterraneo gruppi di persone: perché riteniamo che esse mettano a  rischio la nostra fragile ricchezza, le nostre povere certezze  quotidiane.
Gli indiani che arrivano sono davvero solo “poveri cristi” o  non ci sono fra loro ingegneri che potrebbero insidiarci?
E perché la  Merkel accoglie i siriani, ben formati e competenti?
È una catena, una  serie di paure: un susseguirsi che ci indigna quando ne siamo le  vittime, ma che ci carica oltre misura quando riguarda altri.
Per questo e per altri motivi, per tornare  alla Svizzera e al Ticino, i nostri amici rossocrociati dovrebbero  pensarci bene e immaginare se, all’improvviso, i trattati per la libera  circolazione delle merci venissero rivisti. Quante aziende italiane che  si sono spostate appena al di là del confine, attirate da politiche di  dumping salariale e da una tassazione “amichevole”, dovrebbero tornare  di qua della frontiera?
Certo, in tal caso tanti frontalieri  rincaserebbero, ma contemporaneamente quanti sarebbero gli svizzeri a  divenire meno ricchi?
Se, dunque, è evidente che non si vive di  solo groviera e che non si può nemmeno vivere di solo Grana padano,  dovremo trarre da questo referendum il coraggio di affermare che non è  vero che il solo formaggio buono è quello prodotto a casa propria.
In  fondo questa consultazione rischia di produrre qualche effetto positivo:  perché provare sulla nostra pelle, sulla pelle dei nostri familiari,  amici, vicini, l’amaro sapore del rifiuto, potrebbe indurci a  considerare “quanto sa di sale lo pane altrui”, per citare il Sommo  poeta, e a valutare “l’invasione degli extracomunitari” per quel che  essa è, una vera occasione di rilancio delle politiche economiche  italiane ed europee e di ripensamento su di sé e il proprio destino.
In fondo, adesso che ci si pensa, anche gli svizzeri sono extracomunitari. O no?
GERARDO LARGHI
Fonte: qui
 

 
 
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