Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti. I tre giganti del petrolio – responsabili di un terzo della produzione mondiale – hanno già iniziato a inondare i mercati di barili extra, con uno sforzo almeno in parte coordinato che potrebbe anche non raffreddare i prezzi del greggio, viste le infinite emergenze sul fronte dell’offerta (il Brent è tornato a sfiorare 80 dollari) ma che di certo li porterà a sottrarre quote di mercato ai produttori in difficoltà: dall’Iran al Venezuela, dalla Libia alla Nigeria e all’Angola.
Non solo, ma il presidente Trump in persona ha chiesto al re saudita di aumentare la produzione di anche «2 milioni di barili» al giorno per compensare la minore produzione di Iran e Venezuela . È stato lo stesso presidente ad annunciarlo via twitter, aggiungendo che re Salman «è d’accordo». Riad, in una nota ufficiale, ha confermato la conversazione telefonica, precisando che i due leader hanno condiviso la «necessità di preservare la stabilità del mercato petrolifero e gli sforzi dei Paesi produttori di compensare eventuale carenze di offerta», senza tuttavia confermare la cifra di un possibile incremento . Riad comunque avrebbe già spinto le estrazioni di greggio al livello record di 10,7 milioni di barili al giorno, ben 700mila bg in più rispetto al mese scorso. L’aumento, avviato prima ancora che l’Opec si riunisse per valutare i livelli produttivi, è stato rilevato da trader e analisti interpellati dalla Reuters, secondo cui anche l’export saudita sarebbe balzato a 8 mbg negli ultimi 15 giorni, da una media di 7,3 mbg ad aprile (l’ultimo dato ufficiale disponibile).
La Russia, alleata dell’Opec, aveva cominciato fin da marzo ad attenuare il rispetto dei tagli produttivi e ieri il ministro Alexandr Novak ha affermato che Mosca è pronta a offrire altri 200mila bg a luglio o anche più «se necessario». A maggio la produzione russa era stata di 10,97 mbg e nella prima settimana di giugno, secondo fonti Interfax, era già salita a 11,09 mbg, 143mila bg sopra la quota concordata con l’Opec e solo 100mila bg in meno rispetto al massimo storico di novembre 2016.
I volumi sono superiori a quanto la maggior parte dei Paesi Opec sia in grado non solo di esportare, ma neppure di estrarre. Solo i sauditi e gli iracheni riescono a vendere di più all’estero (Baghdad è intorno a 3,6 mbg, tallonata – per ora – dall’Iran con circa 2,2 mbg).Il petrolio sta arrivando a ritmi da primato anche dagli Usa. La produzione americana è ormai salita a 10,9 mbg e nella settimana al 22 giugno – proprio mentre l’Opec cercava un accordo – le esportazioni hanno raggiunto la bellezza di 3 mbg, un livello stratosferico, che ha stupito alcuni osservatori al punto da spingere qualcuno a sospettare un numero “taroccato”, vista anche la cifra tonda: tre milioni esatti, non uno di più e non uno di meno.
L’exploit americano, per vari motivi, potrebbe comunque essere temporaneo. La capacità dei porti sul Golfo del Messico, su cui mancano cifre ufficiali, è forse sufficiente a sostenere ritmi superiori: secondo Clipper Data è salita di recente a circa 5 mbg, distribuiti in 6 terminal. Ma la rete di oleodotti è inadeguata, tanto che presto potrebbe arrestare la crescita dello shale oil : nell’area di Permian, ha denunciato Scott Sheffield, ceo di Pioneer Natural Resources , il limite di portata delle pipeline sarà raggiunto a settembre.
Le forniture record arrivate la settimana scorsa dagli Usa almeno in parte sembrano prelevate dagli stoccaggi (che infatti sono crollati di ben 9,9 mb).
Il petrolio Usa è anche diventato meno conveniente per i consumatori: lo sconto del Wti sul Brent, che aveva superato 11 $ a inizio giugno, ora è più che dimezzato e agli attuali livelli, inferiori a 5 $, non incentiva più le esportazioni.
Sullo sfondo c’è anche la minaccia dei dazi cinesi. A differenza di quelli sui prodotti agricoli, quelli sul petrolio non entrerebbero però in vigore il 6 luglio, ma solo in un secondo momento. E comunque il mondo è grande e nei prossimi mesi avrà un enorme bisogno di greggio.
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