Massimo Finzi per Dagospia
Può apparire strano che proprio nel secolo che ha registrato i maggiori successi della medicina e della chirurgia sia entrato in crisi quel rapporto medico-paziente che invece è fondamentale per il successo di ogni cura.
La ricerca scientifica ha aumentato notevolmente le capacità diagnostiche e terapeutiche, ma a costo di una sempre maggiore specializzazione che ha portato ad una parcellizzazione delle competenze: il paziente spesso è costretto a ricorrere a più specialisti e questa condizione di cura collettiva porta ad una deresponsabilizzazione e alla perdita di una visione di insieme del paziente.
Infatti la specializzazione spinta all’eccesso impedisce di osservare il paziente nell’interezza della sua dimensione fisica e psichica e il malato percepisce con disagio questa condizione che lo relega ad un ruolo di oggetto più che di soggetto.
Il superspecialista rischia così di diventare un tecnico che osserva solo un tassello del mosaico con il pericolo di focalizzare la propria attenzione più sulla malattia che sul malato.
Se a questo si aggiunge la burocrazia che rende difficile il facile attraverso l’inutile con controlli assillanti di appropriatezza e di contenimento della spesa, la quasi impossibilità di rivolgersi in ospedale alla stessa figura professionale, il quadro è quasi completo.
La distanza tra “prendere in cura” e “prendersi cura” del paziente è ancora elevata.
Empatia, capacità di ascolto, comunicazione calibrata sul livello di comprensione di ciascun paziente, disponibilità a guidarlo e seguirlo nel percorso di cura, dovrebbero caratterizzare la figura del medico insieme ovviamente alle capacità professionali specifiche.
Ma il rapporto medico paziente viaggia nei due sensi, non solo dal medico al paziente, ma anche dal paziente al medico, che sempre più spesso si deve confrontare con la figura del “paziente con comportamento disturbante o indisponente”.
Si tratta di quei pazienti che invece di cercare un’alleanza con il medico si mettono su un piano di competizione, suggerendo ad esempio accertamenti o citando terapie attinte da internet, manifestando scetticismo sull’opera del sanitario la cui diagnosi sarà comunque sottoposta al vaglio di un secondo, terzo e quarto consulente perché “ è meglio sentire più campane”.
Questa condizione, frustrante per il sanitario, crea un’atmosfera sfavorevole non solo sul piano del rapporto personale, ma anche su quello dell’accuratezza della diagnosi.
Uno studio, condotto nel 2015 nei Paesi Bassi, ha coinvolto 63 medici di medicina generale a ciascuno dei quali erano stati proposti 6 pazienti “indisponenti”.
L’accuratezza diagnostica ad una prima visita raggiungeva appena il 54% e dopo una seconda visita più approfondita la percentuale saliva solo al 60%.
Lo studio è stato ripetuto coinvolgendo 74 specializzandi in medicina interna a ciascuno dei quali erano stati affidati 8 pazienti “disturbanti”. Anche in questo caso la precisione della diagnosi si rivelava marcatamente più bassa rispetto ai risultati ottenuti con pazienti “non disturbanti”.
Nel rapporto medico-paziente la parte sofferente e quindi più debole è certamente quella dell’ammalato, ma il rispetto dei reciproci ruoli, diritti e doveri dovrebbe rappresentare la via maestra per una relazione ottimale dalla quale far scaturire la giusta diagnosi e, conseguentemente, la terapia più efficace.
Nessun commento:
Posta un commento